Spike Lee torna alle radici: afrostyle, soul e rap tra lusso e colpi di scena in Highest 2 Lowest

  • Postato il 23 novembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 1 Visualizzazioni

Highest 2 Lowest di Spike Lee è tutta questione di figaggine afroamericana. L’ultimo confetto confezionato dal regista di Brooklyn è sia una summa della stilosa eleganza upper-class black statunitense, sia il ritorno poetico a una tradizione culturale musicale sfracellatasi nel profitto cieco e nel cantilenare tronfio del rap. Qualcuno deve aver detto a Lee che infognarsi negli ideologismi (modello P.T. Anderson) era procedura stantia (BlacKkKlansman) e allora eccolo tornare sui suoi passi più leziosi e familiari (Inside Man), dove intrattenimento fa rima con sofisticazione, acciuffare un plot perfetto di Kurosawa (Anatomia di un rapimento, 1963) e lucidare come una vetrina di gioielli Denzel Washington qui David King, biblico padrone (sembra Quincy Jones) della Stackin’ Hits Records e infallibile orecchio per il talento musicale esclusivamente black.

Incasellato nel lusso di un appartamento sull’Olympia Dumbo di Brooklyn vista Manhattan (una specie di Bosco verticale), zeppo di iconografia sportivo-politica black alle pareti, King vorrebbe recuperare le quote aziendali cedute da qualche anno per ottenere nuovamente la maggioranza, pentendosi sottotraccia di aver ceduto il reale controllo dell’etichetta alla cecità del business più spregiudicato e vuoto.

Mentre la bella moglie Pam (Ifanesh Hadera) va a riunioni di fondazioni musicali, King accompagna agli allenamenti di basket il figlio Trey (Aubrey Joseph) imponendogli di spegnere lo smartphone per qualche ora e connettersi alla realtà. Non che King sia un antidiluviano, anzi. Tutto inzaccherato tra ninnoli, fini orecchini e vistosi anelloni, cravattone bianco su camicia bianca e giacca blu, con le sue cuffie grandi vecchia maniera color oro (cifra estetica di Lee, appunto), si isola mistico nell’ascolto musicale.

Ad increspare la beatitudine del boss è una improvvisa telefonata, dove gli viene chiesto un riscatto enorme (17,5 milioni di dollari in franchi svizzeri) per riavere suo figlio. In pochi istanti scatta la macchina anti sequestri della polizia di New York e un detective sospetta dell’autista di King, Paul (Jeffrey Wright), suo “bro” e sorta di legame iconografico con la microcriminalità del passato come dell’islamismo alla Malcolm X.

Tutta la crew si piazza nell’attico di King, dove accade un altro piccolo twist: Trey non è mai stato rapito, ma per uno scambio di fascette antisudore durante il basket è stato rapito Kyle, figlio di Paul, che si allenava con lui. La prima ora di film scorre via su una linearità volutamente controllata, superficie patinata e translucida, dove King mostra addirittura dubbi nel pagare comunque il riscatto per il figlio dell’amico.

Highest 2 Lowest si sblocca definitivamente in una sinfonia action e neonoir nella seconda ora, iniziando dall’articolata sequenza della consegna dei soldi che Lee architetta con frizzante vigore sui vagoni della metro imbottita di tifosi degli Yankees e in strada con l’invasione di migliaia di portoricani per la loro parata/festa nazionale. Qui il respiro ampio e geometrico del regista di Fa la cosa giusta si fa vortice sensoriale con il soundtrack solenne blanchardiano di Howard Drossin, che si fonde nella performance live dell’anziana icona portoricana Eddie Palmieri.

I soldi si perdono. Kyle torna a casa. La polizia non ci capisce più nulla, ma l’orecchio di King porta alla soluzione. Lui e Paul, armi in pugno, pistolettate e confessioni, troveranno il rapitore rapper in un anfratto del ghetto da cui provengono. Nel finale King fonderà un’etichetta più piccola e familiare, iniziando a produrre Sula (Alyana-Lee), stavolta scoperta dal figlio Trey, sorta di ritorno melodico a una soul music più armonica e tradizionale.

Ci siamo allargati molto in dettagli (li trovate ovunque online) non perché ci piace spoilerare, ma per far capire dove Lee, attraverso le mosse dell’alter ego Washington/King, voglia andare a parare con questa sorta di confessione matura e adulta, di ritorno alle origini musicali vagamente conservatore, sicuramente disgustate da una china negativa dell’autoproduzione rap ormai non più basata sull’autenticità della miseria ma sulla sete di ricavi facili grazie ai social.

Highest 2 Lowest è amalgama robusta e di gran classe tra immagine e suono, un cinema molto amico di chi ascoltava la Motown e James Brown (la terza parte notturna di caccia all’uomo è tutta orchestrata sulle note di Mr. Dynamite) prima che arrivasse l’auto-tune. Il brano Highest 2 Lowest cantato da Alyana-Lee, e pure la versione di Prisencolinensinainciusol di Celentano sui titoli di coda, sono pezzi da urlo. Mentre Washington è un attore spaventosamente affascinante, mimetizzato tra echi di invincibilità alla Equalizer e coolness borghese.

L'articolo Spike Lee torna alle radici: afrostyle, soul e rap tra lusso e colpi di scena in Highest 2 Lowest proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti