«Spettatori a Bruxelles»: ecco come Prodi, Draghi e Monti hanno fatto a pezzi il sogno europeo
- Postato il 14 settembre 2025
- Di Panorama
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Torna di moda “Il Ratto d’Europa”, così evocando Ovidio si evita di passare da europentiti. Nelle scorse settimane – dopo la trattativa sui dazi e sull’Ucraina tra Usa e Ue – molti hanno travestito Donald Trump da Giove che, così vuole il mito, in sembianza di toro rapì per concupirla Europa. Se ne narra nelle Metamorfosi e il campionario dei voltafaccia è vasto.
Le dichiarazioni di Draghi, Prodi e Monti sull’Europa
Il 21 agosto, al Meeting dell’Amicizia di Rimini, Mario Draghi ha tuonato: «L’Europa è marginale e spettatrice, è evaporata l’illusione di una Ue che ha potere».
Il 27 agosto, in un’intervista a La Repubblica, Romano Prodi ha proseguito il ragionamento: «L’Unione europea non sta giocando. In pochi sulla stampa hanno dipinto l’incontro di Washington nelle cifre giuste. Ossia lo scolaretto Europa che prende lezione dal professore in cattedra… Draghi fa un’analisi perfetta, ma si sofferma solo sulle soluzioni di tipo economico. Bisogna fare debito comune? Certo. Ma ancor più servono la difesa comune, la politica estera comune. Gli eurobond vanno benissimo, lo dico da anni. Ma dobbiamo fare politica».
Il 28 agosto si è accodato Mario Monti, che al Corriere della Sera ha detto: «L’Europa è già caduta nell’irrilevanza, ma non è condannata a rimanerci. Per uscirne dobbiamo fare leva su due risorse: la nostra dignità e tanti potenziali alleati».
Eurotassa, euro e perdita di competitività
Sono passati 29 anni da quando, era il 1996, Romano Prodi allora presidente del Consiglio impose l’eurotassa. Un prelievo forzoso da 4.300 miliardi di lire che era stato preceduto quattro anni prima dal 6 per mille che Giuliano Amato sottrasse nottetempo dai conti correnti. L’obbiettivo era entrare nell’euro a ogni costo. Disse Romano Prodi allora: «L’ingresso dell’Italia nell’euro rimane come uno dei punti più alti della nostra recente storia nazionale».
C’è chi ha fatto i conti. Il Cep, pensatoio tedesco contestato da molti economisti, sostiene che l’Italia con l’euro ci ha rimesso 4.300 miliardi di euro di Pil, mentre la Germania ha guadagnato 1.800 miliardi. Era scritto sin dall’inizio e lo sa Mario Draghi, che era accanto a Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro, nella fatidica notte del patto sul cambio fisso. Gli industriali italiani volevano un cambio lira-marco a 1.200, Helmut Kohl non si schiodò da 990. Risultato: perdemmo competitività con una firma. A cui si è aggiunto il differenziale d’inflazione che per gli italiani ha significato perdere in un quarto di secolo il 32 per cento di potere d’acquisto.
L’euro tra salvezza e crisi
Nel 2019 però Prodi ripete (intervista a Repubblica) «l’euro ha salvato l’Italia». Tre anni più tardi, nel ventennale della moneta unica, dirà a Bruxelles accanto a Ursula von der Leyen: «Bilancio molto positivo: se oggi progrediamo con il progetto europeo è perché ne abbiamo posto le fondamenta con l’euro che è il pilastro più forte e più innovativo dell’Europa. Tuttavia intendevamo ottenere un’area economica paragonabile a quella degli Stati Uniti. La crisi e i dissidi fra i vari Paesi europei hanno rinviato questo obiettivo. Nonostante questo la storia ha dimostrato quanto torto avessero le persone, premi Nobel compresi, che sostenevano che l’euro non avesse alcuna possibilità di sopravvivere». Nelle stesse ore, però, l’allora governatore della Banca d’Italia fece quasi una profezia dell’attuale pentimento di Romano Prodi.
Il nodo della moneta senza Stato
Dirà Ignazio Visco: «Una moneta senza Stato può durare fino a un certo momento, poi c’è bisogno di uno Stato e di un’unione di bilancio; la Bce è l’unica banca centrale di un insieme di Paesi che non ha una struttura federale». Ma l’ex presidente della Commissione europea che aprì il mercato alla Cina senza condizioni un anno più tardi, in una conferenza a Pechino, dove ha cattedra grazie alla Fondazione Agnelli, dirà: «Ricordiamoci che se non stiamo assieme non contiamo nulla e in secondo luogo che la moneta comune è uno dei fondamenti dell’unità. Lo Stato moderno si basa sulla moneta e sull’esercito. L’esercito non ce l’abbiamo, ma la moneta sì». Nelle previsioni ottimistiche Prodi è in ottima compagnia.
Dal commiato alla lira al “whatever it takes”
Mario Monti da commissario europeo (era il 2001) sentenziò: «Cara lira, ti lascio con nostalgia, ma senza rimpianti. Come studioso di moneta, per decenni mi hai dato emozioni: che passione osservarti e scrutarti, imprevedibile com’eri! L’euro sarà più noioso».
Caso mai fastidioso per gli italiani costretti a tirare la cinghia. Siamo l’unico Paese che ha il pareggio di bilancio in Costituzione e che dal ’95 a oggi (fatta eccezione per i due governi Conte) ha mantenuto costante l’avanzo primario. Conseguenza delle direttive di Mario Draghi, che nel pronunciare la scomunica dell’Europa attuale ha ricordato come nella sua tesi di laurea «sostenessi che la moneta unica era pura follia».
Le riforme mancate e il futuro dell’euro
Eppure ci ha lavorato indefessamente dal 1992 come direttore del Tesoro, quando dette il via alle privatizzazioni di Stato (che Romano Prodi trasformò anche in buone occasioni per gli amici), da Governatore della Banca d’Italia e poi da presidente della Bce. È rimasto famoso il suo whatever it takes – corrisponde a “todo modo”, il moto dei gesuiti di cui Draghi è stato scolaro e che ne hanno plasmato carattere e modi – pronunciato nel 2014 per convincere i tedeschi a mollare la presa sull’acquisto dei titoli e salvare l’euro.
Draghi scommise allora su quell’Europa lacrime e sangue: altro che debito comune! Lo fece già nella famosa lettera del 2011 firmata con Jean Claude Trichet che stava per lasciargli il posto alla Bce. Determinò la caduta di Berlusconi, l’ascesa di Mario Monti creato in gran fretta senatore a vita da Giorgio Napolitano. Nel preambolo della lettera c’è una fede incrollabile nell’Europa a trazione tedesca. Scrive Mario Draghi: «Tutti i Paesi dell’euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali».
Di queste riforme non se ne farà neanche una. Eppure nel 2019, all’atto di lasciare la Bce, Mario Draghi, quello che oggi imita Gino Bartali con il suo proverbiale «gli è tutto sbagliato gli è tutto da rifare», proclama solenne: «L’Unione monetaria può durare e prosperare: sono ottimista sul futuro dell’Europa. Hanno incontrato molti ostacoli e dovuto fronteggiare molte critiche. Hanno dimostrato nondimeno il loro valore e oggi sono coloro che dubitavano a essere messi in discussione».
Pare un secolo e sono invece appena 65 mesi fa. Aveva ragione John Kenneth Galbraith: «La sola funzione delle previsioni in campo economico è quella di rendere persino l’astrologia un po’ più rispettabile».