Sotto l’aerospazio, niente: tutti i settori industriali Ue in crisi. “Tra costi dell’energia e interventismo di Usa e Cina si rischia il deserto”
- Postato il 27 novembre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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Su diciotto settori industriali, in Europa uno solo è in crescita: l’aerospazio. Tutti gli altri diciassette sono fermi se non addirittura in preoccupante calo, in particolare l’automotive e l’acciaio che interessano da vicino l’Italia, alle prese con la produzione ai minimi di Stellantis e la morte annunciata dell’Ilva. Persino il comparto della difesa, che pure sta ricevendo la spinta dei piani di riarmo, sconta la difficoltà di essere troppo permeato dagli Stati Uniti. A Bruxelles è stato presentato il report realizzato da Syndex per IndustriAll, il sindacato europeo dei metalmeccanici. Il documento ha un titolo che non si serve di giri di parole: Ending european naivety, ovvero “finiamola con l’ingenuità europea”. Scatta una drammatica fotografia dello stato della manifattura nei Paesi Ue e chiede alle istituzioni di intervenire con una cura choc per evitare il tracollo, visto che al momento ci sono oltre 4 milioni di lavoratori interessati da ammortizzatori sociali.
Problemi in tutti i reparti
Volendo prendere in prestito la metafora calcistica, l’industria europea può essere descritta come una squadra che ha problemi in tutti i reparti. Innanzitutto in attacco, perché l’austerità fiscale blocca gli investimenti e comprime i consumi interni. Poi in difesa, perché ci sono pochi e inefficaci strumenti per proteggere le nostre fabbriche dalla concorrenza cinese e americana, dal dumping salariale e dalla eccessiva dipendenza energetica. Infine, è del tutto carente quello che potremmo definire il settore giovanile: gli investimenti in ricerca, sviluppo e formazione sono troppo bassi, l’età media della forza lavoro è elevata e si fa fatica a favorire il ricambio generazionale.
Ue a rischio desertificazione
Insomma, senza un drastico cambio di rotta si rischia una perenne desertificazione industriale. Sorride solo l’aerospazio, che va meglio dei suoi competitori statunitensi e molto meglio di quelli cinesi. L’industria del solare è stata annientata dalla Cina, così come Pechino domina quella delle componenti per le telecomunicazioni. E ancora, la farmaceutica è sotto pressione da parte degli Stati Uniti, oltre che dipendente da Cina e India. Questa situazione è definita dal sindacato “una precisa scelta politica”, dettata soprattutto dal patto di stabilità che pone un freno agli investimenti e alla domanda interna. Ecco perché IndustriAll chiede di tornare a sospendere la stretta fiscale, come fatto durante il Covid.
L’urgenza? I costi dell’energia
L’urgenza è rappresentata dal capitolo energia. I costi sono determinati dal ristretto mercato del gas e l’Europa sta assorbendo la costosa crescita dell’offerta americana, anche se continua a consumare gas e petrolio russi. La transizione ecologica è una sfida fondamentale e, secondo gli autori del report, bisognerebbe programmarla facendo sì che porti con sé nuove assunzioni. Anche da questo punto di vista va contraddetto il luogo comune per cui una maggiore regolamentazione rallenta lo sviluppo: anzi è “ironico” che mentre l’Europa tenta di ridurre la regolamentazione, la Cina introduce nuovi standard di sostenibilità.
IndustriAll chiede la difesa del mercato interno
Si diceva della carenza difensiva dell’Europa: ci sono pochi mezzi per contrastare le importazioni da Paesi che attuano il cosiddetto dumping, per esempio utilizzando fonti inquinanti e non riconoscendo diritti e giuste retribuzioni a chi lavora. Ecco perché il rapporto IndustriAll chiede una maggiore difesa del mercato interno, rendendo “non gratuito” l’ingresso di merci. Il riferimento è alla possibilità di inasprire le tariffe per far entrare prodotti realizzati con alto apporto di carbonio, quindi rendere ancora più severo il Cbam (Meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere) che oggi regola la materia.
Anche la ricerca perde terreno
Anche nella ricerca l’Europa sta perdendo terreno: è messa bene per quanto riguarda quella di base, ma non in quella cosiddetta applicata. Mentre negli Stati Uniti l’obiettivo è stato aumentare la capacità produttiva, nel nostro continente ci si è concentrati più sulla sostituzione. Ma soprattutto, l’atteggiamento europeo è ancora focalizzato sulla gestione di una crisi, e non tanto sulla pianificazione dello sviluppo. Le diverse normative nazionali sul mercato del lavoro aggravano la carenza di manodopera competente.
La richiesta: aiuti solo se profitti reinvestiti
C’è anche un passaggio sul rapporto tra la finanza e l’industria. Il rapporto del sindacato sostiene che in Europa i profitti non vengono reinvestiti, e che il nostro continente è il primo per distribuzione degli utili agli azionisti. Ecco perché l’altra proposta è creare una condizionalità negli aiuti pubblici: non concederli a pioggia ma vincolarli a investimenti in occupazione, formazione e ricerca.
Le regole interne non fanno barriera
In definitiva, il rapporto racconta l’industria europea come un settore stritolato da due superpotenze come Cina e Stati Uniti, interventiste e protezioniste. Le regole interne inceppano gli investimenti e non pongono barriere alle “minacce” esterne sul piano energetico e del dumping ambientale e salariale. Vale la pena ricordare, al di là dello studio europeo, che il caso italiano è emblematico: da due anni il dato sulla produzione industriale è in calo, al netto di qualche ripresa occasionale. A pesare sono le questioni più spinose, ex Ilva e Stellantis.
L’auto in lotta per la sua sopravvivenza
Proprio l’automotive è uno dei settori più indagati dal report. La produzione di veicoli è diminuita in “maniera preoccupante” nel 2024 con un calo del del 6,1% e si prevede un’ulteriore diminuzione nel 2025, mentre i cinesi trainano i volumi mondiali con un numero di vetture assemblate che ha superato la richiesta del mercato interno nel 2021 e lo scorso anno era superiore del 15%. Una tendenza che – secondo IndustriAll – non si arresterà negli anni a venire. Il comparto è definito “sotto minaccia” dal sindacato europeo con impatti a valle sull’intera catena: i produttori automobilistici europei stanno “lottando”, si legge nel report, nel quale gli autori avvisano che il “picco dell’onda non è ancora arrivato”. Il rischio è che diversi pezzi della filiera “non sopravvivano”.
Le cinesi in Ue sì, le auto europee lì no
Anche perché in futuro, stando ai dati, si rischia un’invasione cinese. L’ascesa dei marchi di Pechino sembra inarrestabile: IndustriAll fa notare che i produttori automobilistici del Paese asiatico sono in crescita (6 gruppi cinesi sono ora nella Top 20 delle immatricolazioni europee e BYD è nella Top 10), mentre le vendite dei produttori stranieri in Cina sono in calo. Quando la quota di elettrico aumenterà (oggi è al 17%), il trend rischia di impennarsi definitivamente perché l’offerta di veicoli senza motori endotermici da parte delle cinesi sta raggiungendo o superando quella dei produttori occidentali.
La perdita di know how, uno scenario plausibile
La conclusione è drammatica nel lungo periodo, non solo per le materie prime legate alle batterie, ma anche perché la ricerca e sviluppo – secondo il sindacato – è minacciata a causa dell’attrattiva crescente delle piattaforme ideate in Cina e India, che consentono uno sviluppo più rapido a costi inferiori. Il rischio è che vada totalmente disperso il know how. Se il settore automobilistico europeo continuerà a ridurre le sue capacità di produzione e progettazione e a esternalizzare gli acquisti al di fuori dell’Europa, ad avviso degli autori, presto non avrà più i volumi necessari per essere redditizio, né le competenze e l’esperienza richieste per la sua trasformazione.
De Palma: “Rischi enormi, serve mobilitazione europea”
“L’industria europea sta correndo un rischio enorme a causa delle mancate scelte e dei mancati investimenti privati e pubblici dalla Commissione e dell’Unione, dei Governi ma anche alle scelte sbagliate che le multinazionali stanno facendo in questo momento”, dice il segretario della Fiom-Cgil Michele De Palma. “Il numero che mi ha particolarmente colpito della relazione di Judith Kirton-Darling, segretaria generale di IndustriAll Europe, è quello dei 4,3 milioni di lavoratrici e di lavoratori in Europa che sono in questo momento interessati da ammortizzatori sociali e quindi non pienamente al lavoro a cui si aggiungono i lavoratori già licenziati, decine di migliaia. Questo segnala il rischio in Europa di perdita di ulteriori posti di lavoro e di perdita quindi della sovranità industriale europea”. Secondo De Palma è “fondamentale” che “ci siano proposte condivise da parte dei sindacati europei dell’industria” e “necessaria” una mobilitazione “nei confronti dei Governi e dell’Unione europea per rimettere al centro le lavoratrici e i lavoratori dell’industria per garantire autonomia e democrazia”.
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