“Sono un minatore della fotografia”. Intervista a Giorgio Benni il fotografo degli artisti e delle mostre

  • Postato il 1 luglio 2025
  • Fotografia
  • Di Artribune
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Giorgio Benni nel mondo dell’arte a Roma non ha bisogno di presentazioni. E ormai anche fuori da Roma. Si tratta di un fotografo professionista che scatta con attenzione e sensibilità da anni in musei, gallerie, fondazioni e collezioni d’arte. Una figura diventata oramai di riferimento. Ma più di qualcuno potrebbe essere incuriosito dal conoscere la sua storia dall’inizio

Intervista a Giorgio Benni

Quale è stato il primo lavoro in assoluto nel mondo dell’arte?
Il primo lavoro non lo ricordo. Avevo vent’anni. Credo sia stato per un tipografo che realizzava cataloghi d’arte. Io facevo foto per le persone che avevano smarrito i negativi e riproduzioni di piccoli quadri e grafiche. Giravo per laboratori raccogliendo gli originali e li riproducevo a casa mia, nella mia cameretta, a volte li stampavo in bianco e nero, avevo la camera oscura nel bagno. Le mie riproduzioni giravano e furono diversi a notarle. Questo tipografo lascio un messaggio a mia madre offrendomi lavoro. Mi disse che non aveva mai visto foto di quadri realizzate così bene. Vidi una possibilità ed iniziai a girare tutte le gallerie, case d’asta, editori… 

Arrivò subito un po’ di lavoro?
Macché. Nessuno mi diede lavoro, anzi più di uno mi fece fare delle prove senza pagarmi ed utilizzarono gli scatti. Quando tornai a chiedere i soldi uno mi disse: “Ma chi te conosce. Vattene”. Una volta un tizio mi disse di passare la settimana dopo a prendere il compenso e quando tornai non c’era più la galleria. 

Umiliazioni…
Sì, ma dopo tante umiliazioni mi presentai ad una galleria dove c’erano Pio Monti e Liliana Maniero, che mi dissero di tornare il giorno dopo per fotografare una mostra. Tornai e mi presentarono l’artista che era Alighiero Boetti. Fu il mio primo vero lavoro per l’arte. Avevo 24 anni. Andò bene. Poi da quel servizio ne vennero altri.

Quali sono stati i clienti più difficili, sfidanti, complicati?
Non ci sono lavori più difficili di altri. Ci sono quelli più facili. Un lavoro diventa difficile quando non capisci chi hai davanti. Ci vuole pazienza, infinita. Amore per l’arte e per quello che fai. Basta non dimenticarsi il motivo per il quale tu ed altri state lavorando ad un progetto, che non è il tuo. Ma sei solo uno strumento. Negli anni ho incontrato artisti e gallerie che mi hanno chiesto tanto. Ed io l’ho fatto. Forse con alcune gallerie e musei stranieri a volte è più difficile capire cosa vogliono. Accontentare gli altri dal punto di vista tecnico non è un problema per me, rimane solo un fatto culturale. La difficoltà è quella. I problemi sorgono quando la committenza non sa quello che vuole. O vuole cose fuori budget. Magari ti lasciano da solo con l’artista in galleria e lui ti fa fotografare tutto, mentre il budget del lavoro e basso e non puoi farlo. Poi ti scontri con le mode (ci sono mode perfino su come si fa l’ombra della cornice sul muro), con le abitudini di altri che non conosci, nascono malintesi. È difficilissimo tenere a mente tutti questi fattori. Per fortuna ho perso quasi tutti i clienti problematici. Conservo un bel ricordo della mia collaborazione ventennale con Lorcan O‘Neill, dei servizi con Lia Rumma, Gagosian, con le Accademie dei paesi stranieri a Roma. Mi hanno insegnato molto. Nel presente vivo una situazione più tranquilla, meno stressante.  Anni fa pensavo che lavorare per le gallerie ed i musei più famosi fosse un punto di arrivo della mia professione, in realtà ho capito che il punto di arrivo è il momento dove non hai più paura. Dove tutti sono uguali. Ed è un momento dove sei finalmente libero. Solo se sei libero puoi fare qualcosa che rimane.

Ora raccontaci qualche aneddoto ed episodio anche senza fare nomi…
Ne ho moltissimi… Gino De Dominicis mi commissionava delle foto poi alla consegna le strappava quasi tutte pagandomele e dicendomi “Bravo!”. Lavorai nei vari studi di Cy Twombly per alcuni anni e mi parlò una volta soltanto. Oltre che dirmi buongiorno una volta vide un mio set complesso e mi disse “WOW”. Una volta andai da un collezionista che si diceva fosse un mezzo bandito, le porte di casa erano tutte rotte, bucate da parte a parte, pensavo fossero opera di un artista, una installazione, ma invece era stato che lui gli aveva sparato con la pistola. Un pomeriggio mentre lavoravo in una galleria nel giorno di chiusura entrò un tizio che era il padrone delle mura, voleva distruggermi l’attrezzatura come rappresaglia poiché il gallerista da mesi non pagava l’affitto. Mi chiusi dentro il bagno con la mia attrezzatura e chiamai i Carabinieri, ma non sapevo dare l’indirizzo preciso, in quanto ignoravo il civico. Poi chiamai il gallerista che iniziò a bestemmiare, dopo poco arrivò anche lui in galleria e mentre i due erano arrivati alle mani arrivarono anche i Carabinieri. A quel punto io uscii dal bagno e me ne andai mentre tutti urlavano. Ne ho ancora tanti da dire, però mi fermo qui…

Esiste un tuo “metodo fotografico”? Come lo racconteresti a qualcuno che non capisce nulla di fotografia?
Il mio metodo è molto semplice. Cerco di riprodurre l’esperienza di un visitatore. Vorrei che fra cento anni gli studenti possano studiare la storia dell’arte anche sulle mie foto. Che le mie foto non vengano mai giudicate manomesse, ma semplici documenti. L’arte così com’è. Senza bisogno di sovrastrutture. Nelle sculture ombre morbide, che non raddoppino le masse, punti di vista realistici aderenti a quelli di un visitatore, ambienti molto simili al reale senza grossi interventi di fotoritocco. Documentazioni delle performance quasi sempre dalla parte del pubblico. Quindi un metodo che in realtà è un “non metodo”. Non ho bisogno di affermare me stesso quando lavoro. Offro un servizio, non sono io l’artista, sono solo Mr. Wolf che risolve i problemi. Non li creo.

Tu documenti il lavoro degli artisti e dunque deve esserci anche la capacità di costruire un profondo rapporto con gli artisti…
Per prima cosa penso che un artista per me NON è un bancomat. È una persona con la quale sto condividendo una parte della mia vita. Poi da questa persona, dal suo lavoro, imparo e ricambio. Sono da sempre il primo appassionato del lavoro degli artisti con i quali collaboro. Poi, è normale, con alcuni nascono forti sintonie, con altri rimane tutto solo professionale, che non è negativo in senso assoluto. Però, visto che la fotografia prende una parte importante della mia vita se si hanno dei rapporti umani sono più contento. Collaborando con gli artisti è bello vedere negli anni le trasformazioni dei lavori, essere partecipe ai loro successi, essere solidali. Gioire insieme, meritarsi la loro fiducia. Alcuni li conosco da quasi quarant’anni. Ho visto crescere i loro figli e loro i miei. L’arte è ancora fatta dalle persone. Chi sottovaluta queste cose mi delude fortemente. Ho avuto sodalizi professionali con moltissimi artisti, così di getto mi vengono in mente Luigi Ontani e Marco Tirelli, persone che pretendono tantissimo e dai quali nascono lavori molto impegnativi. Attualmente lavoro molto con Alfredo Pirri. Con lui è molto semplice, mi chiede sempre di fare le cose che ho già in mente. Sarebbe bello fosse sempre così con tutti.

A documentare mostre, musei, collezioni e allestimenti artistici siete un bel gruppo di fotografi. Quali sono le caratteristiche dei tuoi colleghi che non ti piacciono.
Quando ho iniziato ero praticamente l’unico della mia generazione. Negli Anni Ottanta tutti i fotografi volevano fare moda, reportage, pubblicità. Molti facevano i matrimoni. Io ero un semplice tecnico. Amante dell’arte, una specie di minatore della fotografia. Poi le mode sono cambiate. Ma io no. Il livello dei colleghi e delle colleghe è molto alto. Direi che i professionisti che lavorano per l’arte sono tutti più o meno allo stesso livello. La maggior parte produce immagini ineccepibili dal punto di vista tecnico. Ci sono alcune cose che non amo. L’eccessivo utilizzo del fotoritocco. Le immagini palesemente “pompate” di contrasti, di bianchi, ripulite, asettiche. I muri bianchi sparati che in realtà non esistono, il continuo ripulire ogni cosa estranea trasformando una immagine in un rendering. La paura della realtà, il non mettere al centro l’opera ma la sua immagine che è un errore e un danno per l’artista. Un fotografo è una persona che svolge un lavoro intellettuale. Trasforma una idea in una immagine e questa immagine non può essere pensata per i tre o quattro secondi di Instagram. Un paio di volte mi hanno chiesto di ripetere uno scatto perché veniva tagliato su Instagram. Questi meccanismi li considero deleteri. Una buona foto sarà sempre “moderna”. Le foto che seguono le tendenze durano poco e ben presto diventano simboli di un momento storico e spesso involontariamente ridicole.

Giorgio Benni, Kiefer, Galleria O'Neill
Giorgio Benni, Kiefer, Galleria O’Neill

E quali sono invece i colleghi che stimi per come fotografano e per come lavorano?
Premesso che sono tutti bravissimi, ma proprio tutti, guardo le loro foto e rimango quasi sempre ammirato. A parte alcuni che non hanno il senso della composizione, credo perché nelle scuole di fotografia si studia poco la storia dell’arte, magari certi colleghi provengono da ambiti della fotografia che ha poco a che fare hanno con l’arte contemporanea. Non so se studiandola magari possono migliorare. Vedo spesso inquadrature sconclusionate. 

Qualche nome?
Amo il lavoro di Ela Bialkowska in quanto produce immagini “normali” sempre pulite, mai “strane”, oggettive. Immagini che rimarranno anche fra cent’anni e saranno sempre utili. Mi spiego, noi dobbiamo produrre immagini utili, se possibile anche belle. Poi mi piace il lavoro di Sebastiano Luciano. Così lirico ma rigoroso, non è facile mantenersi in carreggiata quando osi come lui. Ovviamente in ogni città ci sono colleghi pazzeschi, Torino, Milano, Napoli. Ovunque tecnicamente ci sono fotografi bravi. Anche se ormai la tecnica la do per scontata. È l’approccio sistematico che fa la differenza.

Quali sono le differenze più lampanti tra i tempi in cui hai iniziato e oggi? Cosa è cambiato più profondamente?
Ho iniziato con la pellicola, il banco ottico, il medio formato. Per una mostra si stava in galleria tre giorni con budget altissimi. Fotografi specializzati come me ne trovavi pochissimi. Non c’erano ancora “quelli con la reflex” che un giorno fotografano il B&B e il giorno dopo te li ritrovi in galleria. Non sanno nulla di arte, fanno i creativi, poi quando li incontri si lamentano del mondo dell’arte. Ho sentito fotografi ridere di opere, di performance, prendere in giro artisti e situazioni. Cose come i film di Alberto Sordi. Sinceramente lo trovo insopportabile. Molto meglio cercare di capire essere curiosi rendersi conto che ci sono “Infinite possibilità di esistere”. Pensare arte, pensare con l’arte, trovare con la propria curiosità e cultura strumenti di decodifica. Prima non si lavorava di notte, si scattava di giorno, si portavano le pellicole in laboratorio e la sera eri una persona normale. Adesso è faticoso e tutti pretendono di entrare con le loro preferenze nel flusso di lavoro. Ma non vogliono spendere per qualcosa in più. Col digitale c’è di positivo che riesci a controllare tutto o quasi. Ma ovviamente è diventato un massacro. Non ci sono più orari e se ti tiri indietro tanto c’è un altro. Ti segano. Mi ricordo che lavoravo due o tre giorni a settimana. Altri ritmi. Si scattava di meno. Non servivano trenta foto per raccontare una mostra. Il centro era l’opera, non l’evento, non la persona.

Come vivi l’impatto delle intelligenze artificiali sul tuo lavoro?
Ogni cosa nuova va capita ed esplorate le potenzialità. Ritengo che sia molto utile per automatizzare processi e risparmiare tempo. Per fortuna la mia fotografia è strettamente documentativa di ciò che esiste ed è creato da un artista e l’impatto di queste novità non influisce negativamente sulle commissioni.

Come ci hai raccontato tu sei sempre attento a non prevaricare il lavoro degli artisti. Ma allo stesso tempo la necessità di creare immagini accattivanti (per i media o per i collezionisti) non è da trascurare. Quale è il tuo rapporto – e il rapporto dei tuoi scatti – con i social e Instagram in particolare?
Una immagine curata e ben bilanciata funziona sempre. L’opera si trova all’interno dello spazio e vive in esso. Inoltre, ci racconta di un mondo che esiste e veicola una idea. Un bravo fotografo è perfettamente in grado di creare una sintesi e di presentare immagini che siano accettate dal pubblico. Intendo immagini di impatto, piacevoli, curate. Senza intervenire con idee bizzare o espedienti creativi. L’opera non ha bisogno dei trucchetti di un fotografo. Riguardo Instagram mi infastidisce il modo rigido di obbligarti a formati particolari. Il fotogramma deve essere libero. Perché ogni immagine ha il suo ritmo e il suo modo di essere. Quando realizzo un catalogo e fotografo ambienti a volte mi impongono un rapporto tra i lati fisso per tutte le immagini. Devo confessarti che rimango deluso da questa richiesta, pur rispettandola. Rimango dell’idea che ogni foto ha una sua storia. Il fotogramma fisso come lo intendono alcuni per me non esiste.

La tua azienda è una vera e propria ditta familiare. Che ruolo hanno i tuoi figli e tua moglie? In che maniera ti danno una mano?
Quando lavori molto è normale che nella produzione entri la famiglia. Mio figlio Giulio, che ora è Giulia, ha iniziato a 14 anni a lavorare con me. Adesso ne ha quasi 28, è fotografa d’arte come me e lavora insieme alla ragazza. Spesso ci aiutano nelle produzioni importanti. Mi sostituisce quando c’è qualche urgenza ed io non posso per via di altri impegni. Mia moglie Maria è entrata nello studio nel 2015, sta sul set da cinque anni, inoltre si occupa di amministrazione e di gare. È fantastica. La nostra vita è permeata di fotografia ed abbiamo orari molto prolungati. Lavorare insieme aiuta a mantenere i legami familiari. Si mangia e si dorme in macchina a volte. Si condivide tutto. Ed è bello. Nelle trasferte in treno o in camper è molto divertente, ognuno porta sempre qualcosa, qualche idea, novità. Visitiamo persone e luoghi favolosi e tutto è così vicino alla felicità. Difficile da descrivere… È così appagante. In ogni luogo d’Italia quando arriviamo a fotografare sentiamo sempre il calore ed il sorriso delle persone. È un flusso che tu dai e ti ritorna. E se accadono cose spiacevoli, questo non ci cambierà.

Esistono tuoi progetti artistici indipendenti dal lavoro di documentazione?
Da quando ho iniziato, quindicenne, ho sempre amato fotografare architetture razionaliste. Credo ci siano motivi a livello psicoanalitico che dovrei approfondire. Ma non ho mai sviluppato seriamente questo progetto. Però la fortuna ha voluto che esprimessi il mio desiderio di trovare una composizione armonica che trovo nelle architetture, nella composizione delle mie foto di documentazione. Per me comporre una immagine all’interno del fotogramma è mettere in ordine il mondo modificare il caos. Involontariamente lascio la mia firma sui lavori degli altri. Perché alla fine la neutralità non esiste, piuttosto una educazione alla neutralità. Due anni fa ho realizzato un video, Equinozio. Un progetto che avevo pensato quarant’anni fa. Ho eseguito 650 scatti con la macchina ferma sul treppiede davanti ad una architettura. Uno scatto ogni minuto. E questo per circa 12 ore. Sono stato seduto a fianco alla fotocamera aspettando ogni minuto il minuto seguente. Ho vissuto il tempo che passava fondendomi con l’ambiente ed il tempo stesso. Annullandomi. Poi ho realizzato un video con questi scatti che potete trovare su Youtube. Stranamente come tematica è aderente all’ultima frase del mio libro

Stare poggiato sulla rete di un ponte a guardare le macchine che passavano sotto. Come faceva anni fa David. Lui sì che ci aveva visto. Non si era negato niente. Aveva perfino trovato il tempo per annoiarsi. Ed io sarei rimasto lì A contare le auto, come le pecore. Ad addormentarmi sereno, ipnotizzato, fino a che il tempo non avesse consumato i miei vestiti

Quali sono i progetti e le visioni per l’immediato futuro di Giorgio Benni dopo così tanti anni di carriera?
Gli anni passati sono stati veloci, felici e faticosi. Ho costruito molto. Mi trovo in una situazione quasi ideale. Fosse per me lavorerei così, in questo modo e con le stesse persone per altri cento anni. Spero di farlo il più possibile.

Massimiliano Tonelli

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L’articolo "“Sono un minatore della fotografia”. Intervista a Giorgio Benni il fotografo degli artisti e delle mostre" è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

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