SLA, la scienza fa un passo avanti: trovato il segnale che la rivela prima
- Postato il 21 agosto 2025
- Di Panorama
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La notizia arriva da Torino, dove il team guidato da Adriano Chiò, Direttore della Neurologia 1 universitaria della Città della Salute torinese e Andrea Calvo, neurologo dello stesso ospedale, ha lavorato a stretto contatto con i colleghi del National Institutes of Health degli Stati Uniti. Insieme hanno individuato un gruppo di proteine nel sangue che potrebbe rivoluzionare la diagnosi della Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). Oggi la malattia viene riconosciuta solo dopo mesi, spesso oltre un anno dall’esordio dei sintomi. Questo ritardo significa perdere tempo prezioso per avviare le cure disponibili o per inserire i pazienti nei trial clinici. Lo studio congiunto, pubblicato su Nature Medicine, mostra invece che l’analisi di oltre tremila proteine plasmatiche ha portato a isolare un pannello di 33 proteine significativamente alterate nei pazienti rispetto al gruppo di controllo degli individui sani.
L’aspetto più innovativo è l’uso dell’intelligenza artificiale per elaborare i dati: i ricercatori hanno messo a punto un algoritmo capace di distinguere con una precisione del 98,3% tra chi è affetto da SLA e chi non lo è. Una percentuale altissima, che se confermata su larga scala potrebbe davvero cambiare il destino di molti malati. «La scoperta -dichiarano i ricercatori in una nota stampa- si basa su una tecnologia di avanguardia nel campo della proteomica, chiamata Olink Explore 3072, che consente di misurare con estrema precisione la concentrazione di oltre 3.000 proteine circolanti nel plasma. Questi risultati rappresentano una vera svolta: per la prima volta disponiamo di uno strumento potenziale non solo per migliorare e accelerare la diagnosi della malattia, ma anche per identificarla in una fase molto precoce, permettendo di intervenire in modo più immediato e più mirato”. L’obiettivo è ora quello di trasformare questa scoperta in un test clinico disponibile in ospedali e centri neurologici. Per capire l’impatto di questa ricerca occorre ricordare che cos’è la SLA: si tratta di una malattia neurodegenerativa che colpisce i motoneuroni, le cellule nervose che comandano i muscoli volontari. Quando queste cellule muoiono, i muscoli progressivamente si indeboliscono fino a compromettere funzioni vitali come parlare, deglutire e respirare. L’incidenza è relativamente bassa, due o tre nuovi casi ogni centomila persone all’anno, ma la prognosi resta severa: la sopravvivenza media è di due-quattro anni dalla diagnosi. Esistono eccezioni, con pazienti che vivono oltre un decennio, ma si tratta purtroppo di una esigua minoranza. Fino a oggi la diagnosi di SLA si basava soprattutto sulla clinica, sugli esami neurologici e sull’esclusione di altre patologie. Non esistono test specifici e questo ha sempre rappresentato una barriera: il ritardo medio di dodici mesi tra i primi sintomi e il riconoscimento ufficiale della malattia è una delle principali criticità. Ecco perché la possibilità di un semplice esame del sangue, capace di dare una risposta chiara e rapida, viene accolta dal mondo scientifico come una vera rivoluzione. Anche sul fronte delle cure, la strada è in salita. Il primo farmaco approvato, il riluzolo, riesce solo a rallentare di pochi mesi la progressione. Negli ultimi anni sono arrivati farmaci innovativi come il tofersen, rivolto a pazienti con mutazione genetica SOD1, e combinazioni sperimentali che mirano a proteggere i neuroni dallo stress ossidativo: tuttavia nessuna terapia è ancora in grado di arrestare la malattia. Fondamentale è quindi l’approccio multidisciplinare: supporto respiratorio, nutrizionale e logopedico, insieme a un’assistenza palliativa precoce, migliorano sensibilmente la qualità della vita.
La scoperta di nuovi biomarcatori, come quelli individuati nello studio USA–Torino, potrebbe aprire scenari inediti. Non solo una diagnosi più rapida, ma anche la possibilità di monitorare meglio la risposta alle terapie, selezionare i pazienti idonei per i trial e personalizzare i trattamenti. In prospettiva, conoscere la malattia nelle sue fasi iniziali significa anche intervenire quando ancora molti neuroni sono vitali, aumentando la speranza di una cura efficace.