Siracusa. La Pirrera Sant’Antonio: la cava che sognava uomini nel tempo della Storia
- Postato il 24 giugno 2025
- Antropologia Filosofica
- Di Paese Italia Press
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Massimo Reina
Nel cuore segreto degli Iblei, dove la geografia si frantuma in alture calcaree e sentieri tracciati dal sole, esiste un luogo che non si limita a contenere la memoria: la genera. È la Pirrera Sant’Antonio – Cava del Barocco. Una cava, sì. Ma non una semplice ferita sulla roccia. È piuttosto una scrittura incisa a braccia nude, un poema scavato nella pietra, dove ogni gesto ha lasciato eco e forma.
Il gigante addormentato
Immaginate una cava come un animale preistorico, sdraiato sotto il peso del tempo. Le sue membra si estendono silenziose sotto il suolo di Melilli, in provincia di Siracusa. Ha il respiro profondo e lento delle cose dormienti, ma chi varca la sua soglia — che non è né porta né ingresso, ma un crollo, una curva, una discesa — percepisce un movimento che non si vede.
Forse è solo vento. Forse storie. O forse è lei stessa, la cava, che sogna ancora i suoi uomini bianchi di polvere, curvi come interrogativi, intenti a dialogare con la roccia come si parla a un dio dimenticato.
All’interno, il silenzio non è assenza di suono, ma presenza di una voce più sottile: il battito del proprio cuore. È un silenzio costruito nel tempo, come un tempio. Gli occhi, all’inizio, brancolano nella penombra: poi iniziano a distinguere le gallerie, le colonne, le navate. La cava si apre come un corpo, ogni galleria un’arteria. E chi ci è entrato sa che non è mai stato solo spazio: è stato anche tempo. I pirriaturi — i cavatori — non tagliavano soltanto la pietra, la accarezzavano, la leggevano, ne studiavano le fratture. Non vi era esplosione, ma piuttosto un rito. Si scavavano le trinche, solchi profondi e precisi, si infilavano i cugni di legno, li si inzuppava d’acqua e poi si aspettava, come si aspetta il maturare di un frutto. La pietra, infine, cedeva con un gemito: non si spezzava, si staccava. Era un lavoro di pazienza e ascolto. Un’arte.

Una cattedrale di pietra
La Pirrera ha dimensioni che sfidano il pensiero lineare: 27 metri d’altezza nelle volte, oltre 280 di lunghezza nei corridoi. Un universo sotterraneo, invisibile agli occhi quotidiani.
Eppure, da lì venne estratta la materia prima di ciò che vediamo in superficie: nel 1693, quando il terremoto divorò il Val di Noto, fu questa cava a fornire i blocchi di calcare per ricostruire il mondo.
Chiese, palazzi, piazze: l’architettura del futuro nacque nella bocca oscura del passato. Non solo pietra: possibilità.
E c’erano giorni — molti — in cui il sole non penetrava mai dentro. Solo una luce indiretta, un riflesso sulle pareti, come un’idea della luce. Gli uomini lavoravano nel cuore del monte, e nel monte trovavano non solo materia ma visioni, geometrie, echi. Ogni colpo di scalpello era un rintocco, una sillaba. La cava parlava. Non in frasi, ma in gocce d’acqua che filtravano tra le fenditure, in graffi lasciati sulle pareti, in cicatrici di pietra che formavano un alfabeto per chi avesse saputo leggerlo.
La voce della storia
I mestieri che abitavano la Pirrera portavano nomi da favola antica: livellatari, disgaggiatori, scalpellini, stoccatori, ponteggisti, foratori, macchinisti. Ognuno era una tessera di un meccanismo più grande, come rotelle d’un orologio il cui ticchettio era fatto di polvere e fatica. I livellatari erano gli agrimensori del sottosuolo, padroni invisibili di porzioni di cava come altri possiedono vigne o oliveti. I ponteggisti costruivano percorsi sospesi tra terra e vuoto. E poi c’erano i pirriaturi, sacerdoti del taglio, interpreti del minerale. Conoscevano la pietra come si conosce un amico d’infanzia: sapevano dove ferirla, dove lasciarla intatta.
La cava, nella sua apparente immobilità, era un organismo vivo. Una città ipogea abitata dal gesto, dall’ingegno, dall’uomo. Non era soltanto un luogo. Era una grammatica di pietra. Un pensiero inciso. Una memoria che, a chi ascolta con pazienza, continua a raccontare.
Ogni pietra che dorme nel ventre della cava contiene il peso della storia, ma anche il desiderio del volo.
E se un giorno un visitatore si fermerà in silenzio al centro della Pirrera, e poserà l’orecchio contro una parete, forse sentirà un suono sottile, come un respiro trattenuto.
Non sarà vento.
Sarà la cava che, ancora una volta, prova a raccontarsi.
E noi — come Marco Polo davanti al Gran Khan — dovremo inventare parole nuove, leggere, per dire l’invisibile.
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