Sigfrido Ranucci: «Il giornalismo cane da guardia della democrazia? Certo, anche se oggi è più difficile»

  • Postato il 16 ottobre 2024
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Sigfrido Ranucci: «Il giornalismo cane da guardia della democrazia? Certo, anche se oggi è più difficile»

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Intervista a Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, programma di giornalismo investigativo, in Calabria nei giorni scorsi per presentare il suo libro “La scelta”


Per molti versi, oggi, il ruolo dei giornalisti, “cane da guardia della democrazia”, è a rischio. Un po’ per il sopravvento della politica e, indirettamente, per le nuove norme che ostacolano, per esempio, i rapporti tra cronisti e magistrati. Questi e altri temi collegati sono al centro di un’intervista a Sigfrido Ranucci, giornalista e conduttore di Report, noto programma di giornalismo investigativo, in Calabria nei giorni scorsi per presentare il suo libro “La scelta”.

Una serie di riforme cominciate dai precedenti governi e concluse con quelle che il Governo Meloni si appresta ad introdurre, tende ad impedire i contatti tra giornalisti e pm. Sulla base di ciò, oggi a differenza di ieri, per molti magistrati pare che i cronisti di giudiziaria, siano diventati degli “untori”. Cosa ne pensa? Pure lei ha avuto questa impressione?

«Io ho visto e ho notato una maggiore difficoltà di magistrati a contribuire in qualche modo a non far commettere errori ai giornalisti. Ma io penso che il loro timore non sia quello di mettersi nelle mani degli “untori”, bensì quello di temere una ricaduta mediatica e politica quando escono determinate notizie. E questo ci sta. Perché magari il clamore mediatico può rovinare, a volte, l’esito delle indagini, può condizionare l’opinione pubblica. Io credo che sia importante lavorare sulla credibilità della stampa, sui toni giusti, sulla chiarezza e la moderazione di dare informazioni d’interesse pubblico. Il rischio è che, sull’onda emotiva di queste considerazioni, la classe politica si approfitti per mettere il velo e coprire completamente l’informazione.
Io vedo una manovra, che potrei definire “a tenaglia”: da un lato il tentativo di limitare e spuntare sempre più le armi della magistratura, dall’altro quello di voler mettere il bavaglio alla stampa. Ecco, sono convinto che un Paese che funzioni da un punto di vista democratico debba avere una stampa libera, indipendente, una stampa che faccia deontologicamente il suo lavoro, ma debba avere anche nel suo interno una magistratura che abbia tutti gli strumenti che agevolino pure le indagini e non mettendo sempre nuove regole, gettando nella confusione non solo giudici e pm, ma anche gli utenti della Giustizia che sono i cittadini».

Prima però, chi è del mestiere sa che una telefonata con un pubblico ministero titolare di un’inchiesta importante era fattibile. Oggi – ci dicono i pm – basta un semplice contatto telefonico con un giornalista per un possibile innesco di procedimento disciplinare a loro carico…

«Sì. È proprio quello che dicevo prima della “morsa a tenaglia”. Si vuole andare verso una sorta di oblio di Stato. Oblio e impunità di Stato. E quindi dove vai a toccare? Vai a toccare sulla magistratura, sui meccanismi della Giustizia, il che rende poi difficile un processo per arrivare alla certezza della pena, ripeto la certezza della pena, no il garantismo, e vai a toccare sulla stampa, fino ad arrivare ad imbavagliare l’informazione, togliendole i “proiettili” importanti che secondo loro, spesso le vengono forniti dalla magistratura. Ma noi lavoriamo spesso su “fonti aperte” e poi dopo interviene la magistratura».

Tutti, finanche gli autori di dette riforme “bavaglio”, quando sentono parlare dello “Scandalo Watergate” pensano ad un esempio di giornalismo investigativo che fa scuola e che ha cambiato la storia, perché ha portato alle dimissioni dell’allora presidente degli Stati Uniti, ieri, come lo è ancora oggi, l’uomo più potente del mondo nell’era moderna. Ma il Watergate è stato possibile, non solo per la bravura di due grandissimi cronisti investigativi poi pluripremiati, ma anche per il fondamentale contributo dato dalla “gola profonda”, una fonte certamente appartenente alle istituzioni e che ha contribuito a disvelare un piano criminale, perpetrato con la complicità di pubblici ufficiali corrotti. Ci dica una sua riflessione in merito.

«Quello a cui abbiamo assistito fin dal 2006, con la riforma Castelli e nel 2010 con la riforma Mastella, fino ad arrivare ai giorni nostri, è una politicizzazione sempre più evidente delle procure, con i procuratori capi che dettano i temi delle indagini, dove investire la maggior parte delle risorse, insomma, un’espressione della mano della politica, e questo non va bene, perché ci deve essere una distinzione netta tra i poteri di uno Stato. Soprattutto tenendo presenti le necessità della collettività e tenere sempre in vista il bene comune. Oggi il Watergate sarebbe possibile? Non lo so. Forse all’epoca c’era maggiore capacità di indignarsi. Il fatto che i due cronisti del Washington Post nello svolgere quell’inchiesta giornalistica abbiano potuto godere di una fonte qualificata, ciò è certamente importante.
Le fonti in Italia sono sempre meno tutelate, come pure, negli ultimi anni, nel nostro Paese è stata mortificata la figura del whistleblower, che invece l’Europa chiede di proteggere e valorizzare. Abbiamo avuto in Italia episodi che spingono ad intimorire le fonti whistleblower. Credo, allora, che l’operazione del Watergate, oggi sarebbe pressoché impossibile da compiere. Ricordo che dopo l’inchiesta che noi abbiamo fatto sulla Santanchè, disvelando fatti poi ripresi dai pm, addirittura l’allora presidente della giunta per le autorizzazioni Costa, ha detto: non possiamo farci dettare l’agenda politica da una trasmissione televisiva come Report. Questo non va bene, perché il giornalismo deve svolgere il suo ruolo di cane da guardia della democrazia e deve aver il suo sguardo sul potere e non deve essere la vetrina del potere».

Che differenza c’è tra giornalismo investigativo e giornalismo di cronaca giudiziaria, fatto da chi informa sulle inchieste delle procure? La domanda può sembrare banale, ma a volte, oggigiorno, si tende a confondere e a non fare differenze tra le due esperienze di lavoro.

«Sono due esperienze complementari. Due risorse per il giornalismo che richiedono delle specifiche competenze. A volte si fanno passare come giornalisti d’inchiesta coloro che pubblicano le veline dei magistrati. Altri cronisti fanno puro giornalismo d’inchiesta, magari partendo da una segnalazione e poi facendo proprie ricerche su fonti aperte. Incontra fonti, sta sul territorio, batte i marciapiedi e trova le notizie che sono d’interesse pubblico.
Spesso, poi, è la magistratura che segue il giornalismo d’inchiesta ed è per questo che tale tipo di giornalismo viene tutelato in maggior misura dalla giurisprudenza. Il giornalismo investigativo, infatti, non solo viene tutelato dalla verità della notizia, ma anche in base alla verosimiglianza della notizia. Se il cronista d’inchiesta, infatti, va anche oltre la verità effettiva della notizia, a tutela vi è la verosimiglianza della notizia, che fa pensare che un fatto sia vero. Nell’esercizio del giornalismo investigativo puro, vi è una tutela nel caso in cui poi la storia narrata dovesse avere sfumature non corrispondenti alla cronaca descritta».

Sappiamo che conosce il direttore del Quotidiano del Sud, ci racconti com’è successo.

«Con il direttore Razzi, che ringrazio, ho condiviso la parte iniziale del mio percorso professionale. Con lui abbiamo dato spazio sull’homepage di Repubblica alla notizia che avevamo in esclusiva, circa l’esistenza di un giacimento di petrolio a Nassiriya che era stato da tempo adocchiato dall’Eni, che era uno dei motivi perché furono mandati i militari italiani, e poi soprattutto ci siamo occupati dell’utilizzo a Fallujah del fosforo bianco, agente chimico utilizzato dagli Stati Uniti, considerati all’epoca i gendarmi del mondo, nella lotta al terrorismo. Ma gli Usa, in quell’occasione, come aveva scoperto Rainews24, avevano usato armi chimiche vietate. Era un contesto surreale e paradossale, perché gli Usa erano in Iraq su mandato della comunità internazionale proprio per liberare la nazione da un dittatore che era stato accusato della stessa cosa: aver fatto uso di armi chimiche».

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