Sergio Ramelli, che fine hanno fatto i suoi assassini
- Postato il 10 maggio 2025
- Di Panorama
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Li chiamavano «gli idraulici». Non erano capaci di riparare un lavandino. Però sapevano usare la Hazet 36: una chiave inglese lunga e pesante, ideale per spaccare la testa ai «fascisti». Erano nel servizio d’ordine universitario di Avanguardia operaia a Milano. In quegli anni Settanta spadroneggiano anche nella facoltà di Medicina. Il 13 marzo 1975 aggrediscono Sergio Ramelli: diciotto anni, capelli lunghi, idee di destra. Ha scritto un tema sulle Brigate rosse. E il tribunale dell’estrema sinistra non perdona. La famigerata Hazet 36 gli sfonda il cranio, mentre cerca di legare il suo motorino Ciao sotto casa, in via Paladini. Massacrano il «nero». La sua testa galleggia in una pozza di sangue. Muore dopo un mese e mezzo di agonia.
Ramelli, a cinquant’anni dal suo assassinio, è un simbolo. L’odio più feroce degli anni di piombo. La banalizzazione più orrenda dell’odio politico. «L’unico fascista buono è quello morto» urlano allora i compagni. I responsabili li scoprono molti anni dopo. La verità, coperta da inarrivabile viltà, viene fuori per caso. Guido Salvini, il tignoso magistrato che riapre l’indagine, racconterà: «Tutti sapevano, ma la borghesia di sinistra li coprì». Tra il 1987 e il 1990, vengono condannati in otto: omicidio volontario. In tribunale hanno aria contrita, giacche di tweed, cravatte sottili. Sono trentenni con un luminoso avvenire davanti: futuri direttori, primari e cattedratici.
L’ignominia non travolgerà le loro ambizioni. Marco Costa, quella mattina di marzo del 1975, è il capo della squadra che spranga a morte Ramelli, insieme a Giuseppe Ferrari Bravo. Dopo la laurea, entra all’Accademia navale. Per due anni è ufficiale medico: prima all’Arsenale della Maddalena, poi a capo del servizio sanitario sulla nave Euro. Nel 1985 comincia a lavorare come anestesista. Entra all’Istituto lombardo di medicina iperbarica, che arriverà a dirigere. In un’intervista, Costa spiegherà: «È una metodologia terapeutica basata sulla somministrazione di ossigeno puro in particolari ambienti, ermeticamente chiusi».
Viene arrestato in quel 1985, a settembre. Comincia il processo. «Gli spostai le braccia dalla testa e feci cadere la chiave inglese» ricorda in udienza. Viene condannato come esecutore materiale dell’aggressione: inizialmente a 15 anni, poi a 11 anni e quattro mesi. Dopo il carcere, riprende la celebrata carriera come anestesista. Lavora anche all’ospedale Niguarda di Milano e all’Istituto clinico città di Brescia. A marzo 2022 la Regione lo nomina nel «coordinamento della rete regionale per l’attività di medicina iperbarica». Muore cinque mesi dopo. Il 25 agosto 2022, sul Corriere della Sera, viene pubblicato il suo necrologio: «Il consiglio di amministrazione e tutti i collaboratori partecipano al dolore per l’improvvisa scomparsa di Marco Costa, direttore sanitario di Ilmi, collega, amico e stimato professionista».
L’altro esecutore materiale è Ferrari Bravo. In udienza ammette: «Allora avevamo la presunzione di sapere la verità». Anche lui, dopo aver scontato una pena di dieci anni e dieci mesi, riprende a fare il medico del lavoro. Lavora a Sesto San Giovanni. Nel 2002 viene inserito dalla Regione in un gruppo di esperti sulla «sorveglianza sanitaria in edilizia». Si occupa di malattie legate all’esposizione all’amianto. Partecipa ad alcuni convegni all’estero. Poi, si perdono le sue tracce.
Pure Claudio Colosio faceva parte del commando assassino di Avanguardia operaia. Doveva sorvegliare la zona dell’agguato e dare l’eventuale allarme. Si laurea nel 1980. Poi prende la specializzazione: medicina del lavoro, anche lui. Viene arrestato, come gli altri, a settembre 1985. Un anno più tardi, comincia il processo. Nel 1990 arriva la sua condanna definitiva: sette anni e nove mesi. Riesce comunque a completare il suo dottorato di ricerca l’anno seguente. Comincia la sua carriera di venerato luminare. Dopo qualche anno come cultore della materia, inizia a insegnare all’università: prima a Camerino, poi alla Statale. Pubblica decine di libri e articoli su riviste scientifiche. È relatore nei congressi in tutto il mondo. Riceve prestigiosi premi: l’ultimo è dell’Università di Sofia, in Bulgaria. Diventa anche responsabile dell’Unità operativa degli ospedali San Paolo e San Carlo di Milano. Quando scoppia il Covid, è l’unico esperto italiano chiamato dall’Oms per capire come arginare i contagi tra i sanitari. Il 7 aprile 2020, il Corriere della Sera pubblica una lunga intervista a Colosio. Il professore spiega come intervenire tempestivamente per frenare i contagi: «Tamponi agli asintomatici e mappatura dei contatti».
La Regione Lombardia lo inserisce nel comitato scientifico per l’emergenza coronavirus. La nomina non sfugge a Fratelli d’Italia. Ramelli, per il partito di Giorgia Meloni, è un eroe. «La sua morte brutale e assurda è divenuta un simbolo per generazioni di militanti di destra di tutta Italia» dirà la premier nel cinquantennale della sua morte. Ignazio La Russa, poi presidente del Senato, è stato l’avvocato della famiglia Ramelli. Così, Colosio viene escluso. Poco male. Continua a insegnare fino a novembre 2023, quando va in pensione. Adesso ha 71 anni. Uno in meno di Claudio Scazza, apprezzato psichiatra. Appena laureato, comincia a lavorare a Cernusco sul Naviglio. Dopo la condanna a sei anni e tre mesi, nel 1992, lo chiamano come responsabile di un centro a Besana Brianza. Poi va a Vimercate e al Niguarda. Nel 2015 diventa primario di psichiatria nell’ospedale milanese.
Lo stesso incarico di Antonio Belpiede. Quando viene arrestato, a ottobre 1985, è capogruppo del Partito comunista italiano a Cerignola. La pena definitiva è di sette anni. Nel 2009 è nominato primario di ostetricia a Canosa di Puglia. Qualcuno, allora, si ricorda del suo passato. Lui si difende: «Vado avanti a testa alta. Non ho partecipato a quell’azione, non ho ucciso nessuno, ho subìto una condanna vergognosa. Ero membro del servizio d’ordine di Avanguardia operaia, ma non so nulla dell’omicidio Ramelli. So invece che, dopo la laurea in medicina, sono tornato in Puglia e ho dedicato una vita al lavoro e ai pazienti».
Una carriera, pure nel suo caso, costellata di soddisfazioni. Viene chiamato come responsabile del coordinamento regionale dei punti nascita. Nel 2018 riceve un pubblico elogio persino dal governatore pugliese, Michele Emiliano: «Ho appena telefonato per congratularmi ad Antonio Belpiede, primario ginecologo di Barletta, visti i risultati ottenuti».
Anche Brunella Colombelli non ha mai ammesso la sua partecipazione all’assalto. Dopo la morte di Ramelli, diventa biologa e si trasferisce in Svizzera. A settembre 1985 è fermata alla frontiera. Viene poi condannata a sei anni e tre mesi, per aver indicato agli aggressori il luogo dell’agguato. Torna a Ginevra, dove adesso lavora nella formazione professionale delle donne.
Ma perché proprio Ramelli? La domanda riecheggia in tribunale, durante quelle sconvolgenti udienze nella primavera 1987. Luigi Montinari faceva parte del commando. Doveva vigilare e allertare, in caso di pericolo. «Era un avversario politico, con una sua connotazione e rappresentava una realtà che noi combattevamo» spiega al giudice. La banalità del male, appunto. Dopo la condanna a sei anni e tre mesi, Montinari riprende il lavoro di dentista nel suo studio milanese. Come il medico del lavoro Franco Castelli, punito con la stessa pena.
Assieme a Colosio e Scazza, prima della sentenza, i due inviano una lettera ad Anita Ramelli. Su quel foglio, provano ad argomentare l’inaudito: «Non avevamo nulla di personale contro suo figlio, non lo avevamo mai conosciuto né visto. Ma, come troppo spesso accadeva in quel periodo, il fatto di pensare in modo diverso automaticamente diventava causa di violenza gratuita e ingiustificabile». Chiedono perdono. Offrono un risarcimento per i danni: duecento milioni di lire. La madre di Sergio rifiuta. In un’intervista al Corriere della Sera, spiega: «Avessi avuto prima la lettera, anche anonima, in questi 12 anni di ferite mi avrebbe aiutato molto, mi avrebbe aiutato a tirare avanti… Ma l’hanno scritta dieci mesi dopo che la verità era venuta alla luce».
Almeno l’esordio di quella lettera, però, è inequivocabile: «Coloro che scrivono oggi sono uomini molto diversi dai ragazzi di quel tragico giorno». Gli spietati idraulici sono diventati stimati medici. Dall’eskimo, dietro cui nascondere la chiave inglese, al camice bianco, perfetto per mostrare tardivo pentimento.