Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città

  • Postato il 30 novembre 2025
  • Di Panorama
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La DDP non è un edificio. È una domanda: che forma ha il futuro quando lo si tocca con i piedi? Per chi la vede da terra resta un’icona — l’onda argentata, la creatura interplanetaria immaginata da Zaha Hadid, un volume curvo che sembra levitare e respirare. Le 45.000 piastre d’alluminio tutte diverse che la rivestono sono la prova vivente di una filosofia: non si può raccontare Seoul se non attraverso l’asimmetria, l’imperfezione progettata, la tensione costante verso ciò che non è mai stato costruito prima. Basta restare da spettatori per comprenderne la bellezza; basta guardarla per capire che la Corea non cerca mai di essere rassicurante. Ma nel momento in cui si mette piede sul suo tetto metallico, tutto cambia. Non si guarda più la DDP: si diventa la DDP. Non si è visitatori. Si è parte della sua aerodinamica, della sua provocazione estetica. Quello che era un edificio da osservare diventa un paesaggio da attraversare, un corpo da abitare.

Questa camminata non è un tour né un prodotto commerciale. Non si prenota, non si compra, non si aggiunge all’itinerario come fosse un museo, un concerto o una mostra. È un test riservato (a cui Panorama è stato invitato in esclusiva), un esperimento urbano del Ministero della Cultura e della Città Metropolitana di Seoul, una prova di come l’architettura possa trasformarsi da struttura a organismo vivente, da contenitore culturale a spazio che ingloba il corpo umano e lo rende parte della narrazione urbana. L’idea è semplice e radicale allo stesso tempo: non guardare la città dal basso, non guardare la città dall’alto, ma diventare punto di contatto tra la città e il cielo. Essere lo spazio liminale. Essere il luogo che congiunge.

Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città
Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città
Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città
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Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città
Seoul come non l’avete mai vista: la camminata segreta sul tetto della DDP che cambia la prospettiva sulla città

Quando un edificio decide che si può camminare sopra di lui

Si inizia da un rituale che sembra un rito di passaggio: la spiegazione del percorso, le istruzioni severe, la restrizione degli oggetti. Poi le tute sgargianti progettate da designer coreani futuristi, il casco, l’imbrago, i telefoni bloccati al collo. Tutto sembra militare e teatrale insieme. Un misto tra realtà e Squid Game. Si aggancia la cinghia retrattile al corrimano di sicurezza, un cordone ombelicale urbano che non si nota dal basso e che diventa invece l’elemento più intimo dell’esperienza: ti lega alla struttura, ti tiene vicina al corpo metallico dell’edificio, ti ricorda che la libertà richiede fiducia. All’inizio pesa, irrita, sembra un limite, un oggetto estraneo al corpo. Poi si rivela ciò che davvero rappresenta: non è un vincolo, è un patto tra chi cammina e l’architettura che lo sostiene.

Quando la botola si apre e si esce all’esterno, il vento è la prima cosa che parla. L’aria di Seoul da lassù non è la stessa che si respira nelle strade: è più netta, più precisa, più libera. Il primo passo sul tetto è straniante — non ci si aspetta che la superficie sia così reale, così terrena. La DDP da sotto promette lucentezza, riflessi e futurismo; da sopra offre erba bruna, terreno asciutto, silenzi metallici, un paesaggio quasi lunare che la città non immagina, un mondo parallelo esattamente cinque piani sopra la quotidianità. Camminare lì sopra è la scoperta che la DDP non è un oggetto: è un territorio.

La vista che non esiste per chi resta giù

A nord la storia: la Porta di Heunginjimun, le mura di Seoul, le torri superstiti dello stadio, residui verticali del passato industriale del quartiere, prove fisiche che la capitale non distrugge la memoria per costruire il futuro, ma la ingloba. E guardarle dall’alto è come vedere la città parlarsi da sola: un avamposto difensivo trasformato in monumento, un frammento di mura antiche che non fa nostalgia ma struttura, il fantasma di un campo sportivo che continua a vivere non nei ricordi ma nelle sue ossa architettoniche rimaste in piedi. A sud il presente mostra i muscoli: Doota, Migliore, l’impero dei mall che ha trasformato Dongdaemun nella capitale commerciale del fashion business globale, una zona che brilla di neon e ambizione. Visti da lassù non sono solo centri commerciali: sono i templi del capitalismo coreano, gli acceleratori di trend, le incubatrici di estetiche globali. Le luci pulsano come un sistema endocrino urbano, cambiando temperatura e intensità in base alle ore del giorno, ai saldi, alle stagioni, ai lanci delle collezioni. A est la produzione instancabile dei mercati tessili, a ovest la scintilla dell’hotellerie e degli skyline di vetro; insieme creano un dialogo continuo tra ciò che produce e ciò che sogna. Non esiste un altro luogo che offra tutto questo in un’unica inquadratura. Per una volta, la città non è sopra o sotto: è attorno. E chi cammina sulla DDP ne è il centro.

Le uniche due photo opportunity

Ci sono solo due momenti in cui è concesso immortalare l’esperienza. Non tre, non dieci, non “quando vuoi”: due, rigorosamente due. La prima arriva nel tratto settentrionale, dove la storia di Seoul domina l’orizzonte: Heunginjimun, la cinta muraria, le torri superstiti dello stadio. È una foto che non serve come ricordo ma come prova del passaggio, prova della trasformazione. Poi basta: si riparte. Nessun’altra distrazione, nessuna fuga nel comfort dello scatto. Solo cammino. Solo esperienza. La seconda arriva quando l’inizio e la fine del percorso si incontrano: una piattaforma d’alluminio inclinata, il cielo orientale perfettamente blu e la skyline di Seoul che sembra appoggiarsi sulla pelle dell’edificio. È l’unico momento concesso per posare. Ed è crudele proprio perché sa di ultimo istante. Se si potesse fotografare tutto, non resterebbe niente. Due sole foto — per ricordare che il resto va vissuto. Ed è qui che si capisce che l’architettura futurista accetta l’uomo solo se l’uomo accetta le sue regole.

Il momento della musica

Poi arriva il dettaglio che trasforma la camminata in racconto. Parte la musica nelle cuffie. Non è una colonna sonora, è un dispositivo emotivo. Non è casuale, è curata. Nel nostro caso, Wonderwall degli Oasis. La curva metallica sotto i piedi diventa un ponte emotivo: Londra nell’orecchio, Seoul negli occhi, il corpo sospeso tra due culture che non dovrebbero incontrarsi e invece lo fanno naturalmente. Il passo si sincronizza col ritmo, il vento con la voce, la città con la melodia. Non si cammina più: è la città che ti fa camminare. La canzone non accompagna, orienta. Il ritmo detta la cadenza del passo, la voce regola la percezione del paesaggio. È una sincronizzazione emotiva tra l’essere umano e la metropoli: un incontro tra nostalgia e avanguardia che non dovrebbe funzionare — e invece funziona perfettamente.

Lo spazio tra te e la città si annulla

La cinghia che trattiene diventa parte dell’esperienza sensoriale. Trascina, vibra, percuote il metallo quando urta, pesa sulla schiena, fischia se il vento la prende di lato. È irritante e necessaria insieme. È un limite concreto, e un’intimità invisibile con l’edificio. Senza di lei si cadrebbe. Con lei si appartiene. Perché camminare sul tetto non significa dominare l’architettura, ma fidarsi di lei. È un gesto emotivo più che fisico: accettare che la città non è qualcosa da controllare, ma qualcosa dentro cui ci si lascia andare. L’architettura non è più un oggetto da toccare: è la presenza che tocca te. Non sei sulla città — sei dentro la città.

Il ritorno non è una discesa

Quando l’imbrago si sgancia, la malinconia è immediata. Si è più sicuri a terra, ma meno vivi. La città vista dal basso è bella, ma non è più abbastanza. Si è stati sulla soglia, sul punto di contatto tra cielo e metropoli, tra memoria e ambizione, tra corpo e architettura. Ora nulla può replicarlo. Questa esperienza non è un prodotto perché non è fatta per chiunque. È troppa Seoul per chi non è pronto. Troppa verità estetica, troppa storia, troppo futuro tutto insieme. Lì sotto si torna comuni. Lì sopra si è stati qualcosa di diverso. Non migliori, non superiori: più sensibili. La città ha lasciato entrare. E nessuna fotografia, nessun video, nessuna mappa può restituirlo.

La storia della DDP e il motivo per cui il mondo continua a guardarla

Prima di essere un’astronave urbana, la DDP era il vecchio Dongdaemun Stadium, cuore di sport, mercati tessili e lavoro popolare. Quando Seoul decise di ricostruire, non voleva solo costruire un edificio: voleva costruire un’identità. La scelta di Zaha Hadid fu una dichiarazione di politica culturale, non di design. L’apertura nel 2014 non fu un’inaugurazione: fu un attacco frontale alla paura del cambiamento. Da allora la DDP è il cuore pulsante della creatività coreana: sfilate, mostre, eventi globali, fiere tech, festival della K-culture. Non è simbolo: è acceleratore. Non rappresenta la Corea che è: rappresenta la Corea che sta diventando. E il mondo la guarda non perché è bella — ma perché è profetica.

La DDP non si guarda: si attraversa. Non mostra il futuro: lo fa vivere. Non chiede culto: chiede partecipazione. La camminata sul tetto non è un privilegio; è un invito. Un invito a capire che non stiamo entrando in un’era nuova: ci siamo già dentro. E quando si torna giù nel traffico, quando la città riprende la sua distanza e il vento si spegne all’improvviso, arriva la domanda che nessuno vuole farsi ma che resta incollata alla pelle come una verità impossibile da ignorare: come si fa a tornare a guardare la città da sotto, dopo averla vista da dentro?

Autore
Panorama

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