Segantini, pittore delle Alpi

  • Postato il 1 dicembre 2025
  • Di Panorama
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Si può fare fare una mostra ambiziosa su Giovanni Segantini, come è quella attualmente visibile al Museo civico di Bassano del Grappa (a cura di Niccolò d’Agati, fino al prossimo 22 febbraio), facendo a meno di un capolavoro capitale quale le Due madri della Galleria d’arte moderna di Milano? Sì, ma non è la stessa cosa. Così scrivevo delle Due madri qualche anno or sono: «Milano, 1891: la prima Triennale di Brera, l’esposizione collettiva che vuole misurare il livello di modernità dell’arte italiana, propone, nelle due opere destinate a lasciare maggiormente il segno, la trattazione di un soggetto tradizionalissimo, piuttosto indifferente alla voglia di attualità, di aneddoto di vita e di impegno sociale avvertita dalla maggioranza dei partecipanti: la maternità. Una, del 1890, è dovuta all’emergente Gaetano Previati (1852-1920), ferrarese d’origine, vicino alla scapigliatura nei suoi esordi, l’altra, del 1889, è invece di Giovanni Segantini (1855-1899), nativo di Arco di Trento, più conosciuto anche all’estero.

Entrambi gli artisti fanno parte della “scuderia” di Vittore Grubicy de Dragon, col fratello Alberto agente commerciale delle giovani leve lombarde nel mercato internazionale, che si sta facendo promotore, anche in veste di pittore, del Divisionismo, la versione italiana del Pointillisme di Georges Seurat e Paul Signac, dal cui eccesso di metodicità scientifica prende peraltro le distanze.

Diversa è l’accoglienza che critica e pubblico riservano ai due artisti: impietosa con l’“ideismo”, così come veniva chiamato allora il simbolismo più concettuale, della Maternità di Previati, di cui si contesta l’irrealismo non solo della composizione – una madre che allatta sotto un melo, circondata da angeli coinvolti in analogo trasporto mistico – ma anche della tecnica, fatta di filamenti luminosi che differenziano il colore nelle sue componenti e annullano il disegno in un continuum nel quale la vibrazione della tonalità dominante cerca di identificarsi visivamente nello slancio dello spirito; generosa con le Due madri di Segantini, che viene percepita come opera non di rottura, ma di prevalente continuità con il naturalismo lombardo più popolareggiante, ambientata in un stalla al lume di lanterna in cui, peraltro, la condizione umana e la bestiale subiscono una parificazione al limite del sacrilegio […]. Aveva pagato, la scelta di presentare a Brera un dipinto apparentemente concentrato su questioni espressive, la resa coloristica, alla Rembrandt, di un’oscurità da interno che la luce artificiale infrange, evidentemente non priva di un valore simbolico almeno accessorio (la rettitudine), risolta da Segantini attraverso lo sbriciolamento dei tocchi, più contratti e addensati rispetto alle scie di Previati, distesi frontalmente come trucioli di paglia, fra quelli reali e l’aria circostante a cui sono assimilati, che variano i diversi livelli di esposizione al lume, riuscendo, comunque, a conferire alla scena una straordinaria, toccante unità di sentimento, perfino nei suoi aspetti più rusticamente olfattivi, che divinizza in maniera assoluta – eccolo, un altro ideismo occulto – la maternità secondo natura, qualunque sia la specie animale in cui si manifesta.

Privato da bambino dell’affetto materno, Segantini ne ricerca la radice originaria in un mondo umile e ancora arcaico, immune dal delirio del tecnologismo moderno e dalla mercantile volgarità della classe borghese, nella vecchia convinzione romantica che il buono possa esistere solo nel non civilizzato, muovendosi secondo lo stesso binomio poetico (il progressismo della forma che esprime il sostanziale conservatorismo del contenuto morale e sociale) che viene perseguito, anche se non certo in termini artisticamente coincidenti, dal Gauguin esule volontario in Bretagna e a Tahiti».

C’è insomma, nelle Due madri, tutto quello che Segantini era diventato in quel tempo, in corrispondenza del “periodo di Savognin” in cui l’artista aveva deciso di abbandonare Milano e dintorni per i più solitari Grigioni svizzeri dove stava riscoprendo il senso della vita a contatto diretto con la natura.

Erano definitivamente alle spalle le iniziali esperienze sulla scia della scapigliatura, col montano Segantini che afferra le sollecitazioni verso una nuova sensibilità sentimentale tradotta espressivamente in vaporosità cromatica, ma che poco condivide il fatto di riconoscere in questo gusto il crisma di una società borghese culturalmente privilegiata.

L’eroe morto del Kunstmuseum di San Gallo (1880), la cui eccezionalità viene riscoperta nella circostanza, è opera nera in controtendenza rispetto alle sdolcinatezze scapigliate, trovando spazio nella storia del nudo maschile in scurto definita da Mantegna e Annibale Carracci almeno. Elementi di originalità da un certa linea disimpegnata si avvertono anche nell’Oca appesa (1881), dal carattere olandese prima della Scuola dell’Aja, e nella ritrattistica del momento in cui spicca una Luisa Violini Tacchi (1880) che pare provenire dalla Vienna di venti anni dopo. Informato da Vittore Grubicy, Segantini scopre la dimensione sociale di Millet e Van Gogh, ma interpretando la vita contadina in una chiave spoliticizzata nella quale il lirismo dell’anelito spirituale fa dimenticare la miseria materiale. Ritorno dal bosco (1890), con la donna che tira la slitta sulla neve in direzione del paese, è l’indicazione epifanica della retta via, ignota ai cittadini moderni che pure stanno provvedendo a sostenere le filosofie paniche di Segantini acquistando le sue opere. Più si stacca dal corso dominante del suo tempo, più l’artista acquista un respiro internazionale che ancora oggi è particolarmente sentito lungo l’intero continente alpino, nel segno di un ecologismo pionieristico che ieri come oggi concilia con non poca contraddizione evoluzione civile e continuità con certe arretratezze del passato.

Ho ancora scritto sull’ultima produzione di Segantini, preannunciata da opere dal fascino ormai misterico come La vanità (1892): «Col trasferimento a Maloja (1894), nelle montagne svizzere dell’Engadina, quelle di Segantini diventano contemplazioni ossessive da alta quota, sempre più simboliste e ardite nella fattura, a inseguire i miraggi, talvolta di sapore quasi preraffaellita, di madri sante, angeli protettori, fanciulle in amore alla fonte della vita, purezze d’animo e di paesaggio agli altri sconosciute. Così sconosciute che quando vuole dedicare all’Engadina un mastodontico polittico per l’Esposizione Universale di Parigi, gli engadinesi non si riconoscono nella rappresentazione. Muore durante la sua realizzazione, nel 1899, la moglie Bice Bugatti al suo fianco, per una peritonite che un ospedale cittadino avrebbe forse potuto curare».

Autore
Panorama

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