Se l’acciaio inquina solo in Italia

  • Postato il 6 agosto 2025
  • Di Panorama
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Ogni tanto, di fronte ai problemi nazionali, mi chiedo: ma all’estero come fanno? È la domanda che mi sono rivolto la scorsa settimana, quando ho letto che un gruppo di ambientalisti ha praticamente sequestrato il sindaco di Taranto, costringendolo alle dimissioni, poi rientrate.

Piero Bitetti è stato eletto due mesi fa, con il Partito democratico. Secondo le notizie pubblicate dalla stampa locale, a indurlo a gettare la spugna sono state le minacce, anche personali, durante una riunione in cui si discuteva del piano per la decarbonizzazione dell’Ilva.

Una storia lunga sessant’anni

La storia della più grande acciaieria italiana è nota. Entrò in funzione sessant’anni fa, nel pieno del boom economico, quando l’acciaio era la spada della crescita del Paese. Di proprietà pubblica, passò di mano nel 2005, ceduta alla famiglia Riva, proprietaria del primo gruppo siderurgico italiano.

Nel 2012 però arriva la magistratura, che accusa i Riva di disastro ambientale e doloso, arresta i vertici aziendali e mette sotto sequestro l’impianto. A quanto pare, dal 1965 fino alla seconda metà degli anni Duemila nessuno si era mai posto il problema dell’inquinamento, delle polveri ferrose, delle vittime di tumore.

Per quasi cinquant’anni, quando l’industria era nelle mani dell’Iri, cioè dello Stato, tutto o quasi è filato liscio. Qualche protesta, un po’ di lamentele, ma la cosa importante era che l’Ilva dava lavoro a 12 mila dipendenti.

Dopo il 2012, l’incertezza

Poi però è arrivata la magistratura e quello che fino a prima del 2012 era accettabile non lo è stato più. Dunque, messi in galera i Riva e commissariato lo stabilimento, si è cominciato a discutere di come risanare l’ambiente.

Il dibattito è oscillato fra chi vorrebbe fare in modo che l’Ilva continuasse a produrre ma smettesse di inquinare (o per lo meno riducesse fortemente le emissioni) e chi invece vorrebbe definitivamente far sparire quelle ciminiere.

Risultato: da tredici anni si susseguono piani, manager, proprietari, senza intravedere una soluzione. L’epilogo della scorsa settimana, con le dimissioni di un sindaco eletto due mesi prima (anche se poi la lettera d’addio è stata strappata), dimostra che si brancola nel buio.

Una fabbrica quasi ferma

Il ministro dello Sviluppo Adolfo Urso ha preparato un accordo di programma, con l’ok alla trasformazione dell’acciaieria, che dovrebbe avere tre forni elettrici, mentre per gli impianti alimentati con il gas è tutto rinviato a dopo l’estate.

Nel frattempo la fabbrica è ferma o quasi: dal laminatoio esce un terzo dell’acciaio previsto, i lavoratori in servizio sono ridotti al minimo e migliaia di dipendenti sono in cassa integrazione, cioè a carico della collettività. Come probabilmente saranno per anni se il futuro dell’azienda sarà quello che vogliono gli ambientalisti, ovvero la chiusura definitiva.

E nel resto d’Europa?

Dunque, torno alla domanda di partenza: ma negli altri Paesi che cosa fanno? Siccome mi risulta che anche nel resto dell’Unione esistano acciaierie, alcune più grandi della nostra, come si sono regolati, visto che per costruire case, infrastrutture, auto e carri armati l’acciaio è indispensabile?

Hanno messo in galera gli amministratori e chiuso gli impianti siderurgici? Oppure hanno trovato soluzioni per limitare le emissioni senza rinunciare alla produzione?

L’esempio europeo

Ho cercato online uno studio che colloca in Austria, Germania, Francia e Olanda alcuni dei più importanti impianti siderurgici europei, tutti con emissioni superiori a quelle dell’Ilva.

Eppure, non mi risulta che la Voestalpine Stahl di Linz, che pure inquina il doppio dell’Ilva, stia per chiudere: ha un programma per azzerare le emissioni entro il 2050 e il sindaco non mi risulta sia stato costretto alle dimissioni.

Lo stesso si può dire della Integriertes Hüttenwerke di Duisberg, 7,76 milioni di tonnellate di gas serra. Potrei continuare, ma la sostanza credo l’abbiate capita.

Un unicum italiano

Nel resto d’Europa la magistratura non sequestra gli impianti e non assedia i Comuni. Noi siamo un unicum. Stiamo uccidendo uno dei settori strategici del nostro Paese, nel silenzio e nell’indifferenza generale. Infatti l’Ilva oggi produce il 30 per cento meno di ciò che usciva dai laminatoi negli anni Sessanta.

La vicenda mi ricorda un po’ le proteste contro i rigassificatori e gli inceneritori. Esistono in tutta Europa, ma da noi non si possono fare, perché c’è sempre un giudice o un comitato che lo impedisce. E infatti non vanno bene nemmeno gli impianti alimentati a gas.

Autore
Panorama

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