Se la pace in Ucraina di Trump è l’uovo di Colombo. L’opinione di Guandalini

  • Postato il 14 novembre 2024
  • Esteri
  • Di Formiche
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Vedremo se Trump ce la farà a chiudere il conflitto russo-ucraino. Nel frattempo non è sprecato un grazie per la volontà di occuparsene. Bastava relativamente poco per trovare il modo di sgelare il clima calato sulla guerra in Ucraina. D’un tratto, il mondo, ormai contrapposto in blocchi, spinto dall’andatura vagheggiante tenuta dall’Occidente, in particolare dall’Europa, esprime la volontà di parlarsi, trova la spinta per uscire dal torpore. Da quel velo grande d’inerzia, contraddizioni, pressapochismo che ha coperto il conflitto russo-ucraino. Ci voleva tanto capirlo?

Quante superflue lezioni di civiltà esportabile abbiamo dovuto sorbirci. Nelle sue formule più assurde. A mezz’aria. Scelte-non scelte. Chi invia armi, chi non le invia, chi dice di non essere in guerra con la Russia, chi prende il gas, chi fa le triangolazioni per coprirsi le spalle, chi approva il piano di Vittoria di Zelensky, chi parte dal sostenere la resistenza ucraina e arriva fino ad approvare la legittimità strategica di Kyiv di spostare la guerra dentro la Russia, chi invia missili ma solo per uso interno, chi vorrebbe mandare la Nato e chi di nascosto invia soldati, chi farebbe sedere Zelensky da subito nella Nato e chi non gli dà alcuna speranza. Stop and go. Un andare avanti e indietro fondato sull’approssimazione. Sulla mancanza di coraggio. Di dire le cose per quelle che sono. Senza girarci intorno.

E se la democratica Harris s’insediava alla Casa Bianca? Come si sarebbe risolta la vicenda Ucraina? Semplice, come si è fatto fino ad ora. Gli Stati Uniti farebbero l’andatura, l’Europa ciondolante dietro, Zelensky chiederebbe nuove armi e denaro, presenterebbe l’ennesimo piano di Vittoria sicura (?), la pace giusta degli europei, e tutto il corollario ultroneo sentito in questi anni per non dire esplicitamente di essere in guerra con la convinzione di vincerla consapevoli dei rischi che questa scelta avrebbe comportato. Meglio il risultato odierno, spettatori della guerra, con l’inutile morte di migliaia di persone, la distruzione di una nazione custodi della certezza, iniziale, che Kyiv non avrebbe mai vinto?

Della cosiddetta realpolitik ne abbiamo scritto a fiumi. Inascoltati. Ghettizzati nel recinto dei sostenitori di Putin. Fin dal primo momento abbiamo ribadito la giacenza di sospeso negli intenti a proseguire una guerra a babbo morto, sconclusionata, fatta di tira e molla, infarcita a corredo di una lotta tra civiltà, la mia è meglio della tua, apparentata alla perfezione con i macina fumo che ne disegnavano magnifiche sorti e progressive inconsapevoli delle divisioni in cui si sarebbe avviato il mondo. L’Europa si sta risvegliando e sta valutando i danni. Merito dell’elezione di Trump. L’Europa sarà chiamata a responsabilizzarsi. A rispondere alla domanda “per dove dobbiamo andare dove dobbiamo andare?”.

Non sarà facile per Trump trovare una soluzione. Perché la posizione, sul campo, della Russia si è irrobustita. Putin è in una condizione di forza notevole che ci rende l’idea di quanto sarebbe stato meglio fermarlo molto prima. Quando da parte ucraina si sbandierava una vittoria imminente, del giorno dopo che non è mai arrivata. Con Mosca dovrà usare bastone e carota, ma almeno proverà a fare realpolitik e non la pace giusta serva sciocca utile a nascondere improvvisazione, indecisione, ipocrisia uno status quo di inerzia e giro a vuoto.

Europa all’angolo

È la verità svelata. Quattro o cinque occasioni di piani di pace (addirittura uno a un mese dall’inizio della guerra) lasciati andare. Sotto l’uscio per rinfocolare una guerra senza iniziative diplomatiche degne di nota. L’Europa imbambolata. Rintronata. Chiusa nei suoi quattro slogan e nelle passerelle con Zelensky. Suvvia, ci voleva tanto per fare come Trump? Si è proseguito con quattordici pacchetti di sanzioni che non hanno condotto alla fame la Russia come gli strateghi di Bruxelles avevano previsto. E nemmeno hanno piegato Putin che non è morto né per malattia invasiva e neppure per un colpo di Stato nel breve periodo, anche questi scenari venduti all’opinione pubblica occidentale come probabili. Il deficit naturalmente sta nel non conoscere il bigino della storia dell’impero russo, del carattere dei russi, insomma aver fatto due o tre letture utili si sarebbe compreso il da farsi (l’ha ricordato l’ingegner Carlo De Benedetti in un’intervista per i suoi novanta anni. “È ovvio che è stata la Russia ad attaccare l’Ucraina. Ma la guerra alla Russia è la ripetizione di un errore storico, già commesso da Napoleone e da Hitler. La Russia ha un territorio immenso, immense risorse energetiche, armi formidabili, compresa la più temibile: l’inverno”).

Invece spacca di qua, spacca di là, crisi energetica, delle materie prime, autarchia, sovranismi e nazionalismi a go-go, la contemporaneità di un mondo riorganizzato in blocchi (i Brics sono una realtà) con l’Europa in mezzo, in preda a una crisi pesante della sua locomotiva, la Germania, a fianco la Francia e vedremo, nella via della filiera interdipendente, a breve , altre nazioni come l’Italia. Si somma a questo, nella scia americana, l’imposizione di dazi verso la Cina che faranno bingo (è da due anni che gli Stati Uniti hanno, di fatto, congelato il Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, mandando in tilt il solo sostegno valido, di riferimento degli interscambi). Sappiamo bene che è meglio la cooperazione della guerra e le lodi sperticate al multilateralismo ma storicizzando un percorso non tanto lontano, si contano le responsabilità dell’Europa per questo pantagruelico disastro. E non è una buona partenza incolpare il ventennio di Merkel perché ha aperto al basso prezzo del gas russo e alla potenza di fuoco dell’industria cinese. Quella era la globalizzazione che oggi non c’è più per le mosse azzardate senza previsione fatte dall’inizio del conflitto in Ucraina trascinandosi dietro il blocco provocato dalla pandemia.

Il Vecchio Continente non potrà vivere alla giornata. La domanda più ricorrente è se ce la farà a centrare qualche obiettivo. Trump in un comizio elettorale ha disegnato l’Europa come un gruppetto di staterelli, uno impilato sull’altro, lo ricordiamo giusto per capire come il tycoon ci vede. L’Europa non ha un Trump da contrapporre all’originale. E non sarà il piano Draghi il sostituto (fiume di ossigeno lato investimenti, visto che non se ne fanno da tempo). L’Europa è un pachiderma. Lo vediamo anche in queste ore. C’è una coalizione che governa, che poi vota contro ai commissari che a loro volta sono emanazione dei singoli governi e quindi nel Consiglio d’Europa c’è un’altra marcia, che sceglie e decide in altro modo. Come si fa lottare per cambiare con questo status organizzativo? Vedremo il fuggi fuggi quando ci sarà da pagare la ricostruzione Ucraina e la chiusura di fronte ad altre spese militari da sostenere per una difesa europea che sarà un po’ di più di quello che è adesso, senza exploit. L’Europa a 27, 28, 29 stati non può funzionare. Trascinare tutte le nazioni insieme mantenendo lo stesso livello sarà impossibile. Lo si capisce quando il trumpismo sostiene che la Nato si è spinta un po’ troppo in là, ha voluto allargare i confini oltremisura. Lo stesso vale per l’Unione europea.

Il metodo Trump

Il metodo Trump per la pace in Ucraina sarà basato sull’American First. Fotograferà l’esistente, e tra vantaggi e concessioni, reali o presunte, accontenterà-scontenterà (vale la regola dei mercanti, il buon fine di una trattativa scontenta venditore e compratore) quelli seduti al tavolo. La pace giusta non è nel sillabario della realpolitik. Si fa una trattativa dove non c’è chi vince e chi perde. Certo Trump non vorrà rimetterci dei soldi. Infatti, un suo uomo governativo ha decretato l’alt agli aiuti finanziari. Ci sarà un inviato di pace che sonderà e raccoglierà poco. A quel punto Trump si stancherà e in quattro e quattr’otto deciderà dove mettere una linea. Finale. Dal neo inquilino della Casa Bianca c’è da aspettarsi questo e altro. E in questo percorso ce ne sarà per Putin ma soprattutto ce ne sarà per Zelensky. Al quale andrà riconosciuta la resistenza eroica, ma non sarà lui il referente futuro dell’Ucraina (ne abbiamo diffusamente scritto sui limiti della sua condotta). In una intervista a Lorenzo Cremonesi al Corriere della Sera l’ha spiegato alla perfezione Yaroslav Hrytsak, un autorevole intellettuale, docente di storia all’Università di Leopoli. “Zelensky ci tratta come fossimo bambini che non sono in grado di ragionare e a cui non si deve dire seriamente la verità. Continua invece a ripetere la narrativa eroica dei primi mesi, per cui dobbiamo restare uniti e combattere per liberare tutte le regioni occupate dagli orchi russi, inclusa la Crimea. Ma ormai nessuno accetta più questi discorsi: è ovvio che non riusciremo a tornare ai confini del 1991 e comunque ciò comporterebbe tantissimi morti e distruzioni, che il Paese non può sostenere. In realtà, gli ucraini cercano nuove soluzioni per terminare il conflitto e non corrispondono con i discorsi del presidente”. (…) “La popolarità di Volodymyr Zelensky è ai minimi storici. Se si votasse oggi verrebbe sconfitto e l’Ucraina ha bisogno di elezioni al più presto per rinnovare la dirigenza politica”.

Autore
Formiche

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