Se avessi diciassette anni, scapperei dagli adulti impiccioni

  • Postato il 4 ottobre 2024
  • Di Il Foglio
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Se avessi diciassette anni, scapperei dagli adulti impiccioni

C’è una regola non scritta, negli incontri fra amici e conoscenti, che viene troppo spesso violata con una leggerezza francamente insopportabile, costringendomi, da anni ormai, a inventare invasioni di cavallette, terribili emicranie, viaggi oltreoceano, improvvise riunioni notturne. La regola sarebbe semplice, civile, rispettosa dei compagni di cena, pranzo, festa, ritrovo: non si parla di figli più di trenta secondi. Non si parla per ore delle scuole dei figli, delle allergie dei figli, degli sport dei figli, dell’ultima favolosa battuta del bambino di nove anni, non si parla del nuovo fidanzatino della bambina di quattro anni o di quattordici, non si parla della preparazione del compito in classe, né del tormento per la scelta fra la Bocconi e l’America. Se gli argomenti di conversazione scarseggiano, si può andare a dormire presto, o infilarsi al cinema per pochi euro. Il tempo è poco, la confidenza molta, la giovinezza lontana: sventolare le imprese atletiche del primogenito, o tutti gli open day fatti insieme per scegliere il liceo, o quella sera incredibile in cui lui, sei anni, ha detto: estetica, non è il segno di una vita adulta interessante, né della capacità di sentire le vibrazioni di una stanza che di solito non sussurra, ma grida: ti prego basta.

  

Non ci interessa come suona il violino tua figlia, non voglio vedere nessun video, quasi quasi preferisco parlare di calcio (è un paradosso, ok?). Non siamo più in grado di parlare dei fatti nostri, dei nostri guai, dei nostri desideri? E questo per quanto riguarda le lodi pubbliche ai propri figli, che spesso non sono nemmeno esplicite: sono lodi (a sé stessi per interposta persona) travestite da falsa disperazione: non so più come fare, mio figlio vuole sempre studiare!, oppure: sono scioccato, mio figlio cambia una fidanzata alla settimana, è peggio di me (segue risata mitomane e grottesca). I figli non sono un trofeo mondano, allora meglio parlare del tempo, della brughiera, e ricordiamoci che abbiamo passato tutti i loro primi anni di vita a cercare di scappare di casa, a cercare adulti con cui avere uno straccio di conversazione: non arrendiamoci così.

 

C’è di peggio, come sempre. E’ dirsi: che bello siamo riusciti finalmente a vederci, e poi usare quel tempo prezioso non per sfogare tutta la propria personale esasperazione o speranza, o tristezza o entusiasmo, ma per parlare male dei figli degli altri, travestendo le malignità da preoccupazione dialogante. “Hai visto Dario quanto è cicciottello? Strano, la madre ci tiene tanto alla linea” (significa: quella stronza magra ha sicuramente creato degli scompensi nel figlio grasso, e io spargo la voce, fingo preoccupazione e intanto esulto). O anche: la figlia di Maby è sempre più antipatica, non mi ha nemmeno salutato, mi inquieta molto, parliamone per tre o quattro ore dai.

  

Chissà quanto l’hai inquietata tu, chissà perché lei avrebbe dovuto essere carina con un’adulta che la squadra per scoprire dei problemi adolescenziali, dei traumi infantili, dei chili in più, un’eccessiva ombrosità, forse pochi amici? forse una tendenza all’alcolismo? al terrorismo? allo stragismo? Se fossi una ragazza di diciassette anni, diciotto, venti, se fossi un ragazzo di tredici, quindici, diciannove anni, cercherei di stare il più lontano possibile da questi adulti che non si fanno gli affari loro, che vanno a curiosare dentro la giovinezza e che la giudicano di continuo non potendo più averne una.

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Autore
Il Foglio

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