Scuola, la rivoluzione che non verrà dall’alto: se vogliamo salvarla, tocca a noi

  • Postato il 26 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Non c’è da aspettarsi molto dall’alto. Non nel prossimo decreto, non nel prossimo governo, non nella prossima “riforma epocale”. Da troppo tempo la scuola italiana vive in attesa di un cambiamento che non arriva, e intanto si logora: nei muri scrostati, nei registri digitali che funzionano a metà, nei titoli dei giornali che la raccontano come un luogo di fallimenti, di svogliatezze, di disillusione. Si parla di scuola quando c’è un’occupazione, una manifestazione, un sussulto – nel bene o più spesso nel male. Eppure, la scuola resta uno dei pochi spazi dove qualcosa può ancora accadere. Non per decreto, ma per scelta. Non per mandato, ma per responsabilità. Perché – a dirla senza giri di parole – la scuola la fanno le persone. E quindi, tocca a noi, nonostante tutto. 

Ad esempio, nonostante stipendi inadeguati – e in Italia tocca a molti – ma, nel caso della scuola, non dignitosi. Se si guarda all’Europa, il confronto economico è impietoso: in Italia un insegnante all’inizio della carriera guadagna circa 24.300 euro lordi all’anno (secondo i dati Eurydice e AgenSIR) mentre in Paesi come Germania, Paesi Bassi, Svezia o Irlanda si parte da cifre che vanno dai 33.000 ai 38.000 euro. Oltre a ciò, il problema non è solo il confronto nominale: secondo l’ultimo rapporto Education at a Glance dell’OCSE, lo stipendio dei docenti italiani è in media circa il 30% più bassorispetto a quello di altri lavoratori laureati a tempo pieno, a fronte di una differenza media OCSE del 17%. Insomma, il riconoscimento economico non è proporzionato alla formazione richiesta né alla responsabilità educativa che il mestiere comporta. E, di conseguenza, il valore percepito ne risente. Cose che sanno tutti, anche senza dati alla mano, eppure non succede mai nulla per risolvere questa enorme problematica che fa scegliere a molti neolaureati di non insegnare, disincentivati da una “non carriera” e da uno stipendio indecoroso che consente a malapena di pagare un affitto mensile in una grande città. 

Sul piano sociale, la situazione non è migliore. La cronaca degli ultimi anni ha moltiplicato gli episodi di aggressioni verbali e fisiche ai docenti, spesso da parte di studenti o genitori. Secondo un’indagine citata da Eurispes (dati riportati da ANSA nel febbraio 2024), un insegnante su quattro delle scuole superiori ha subito almeno un’aggressione durante la propria carriera. È un dato parziale ma sufficiente a fotografare un clima di tensione crescente.
Sul piano simbolico, lo status dell’insegnante in Italia resta tra i più bassi d’Europa: in una ricerca della Global Teacher Status Index (Varkey Foundation), solo il 16% degli intervistati è convinto che gli studenti rispettino davvero i loro docenti. Il ruolo sociale dei docenti sbiadisce e non è offuscato solo dai crescenti casi di cronaca, ma da un sistema sociale che ne svilisce il ruolo, mettendone in discussione ogni richiesta e ogni giudizio. A tutto ciò si aggiunge la fatica quotidiana: uno studio pubblicato su PubMed (2011) stima che circa il 20% dei docenti italiani – il riferimento però è su un campione di soli 508 docenti -presenti sintomi significativi di burnout, segno di un disagio strutturale che, se non affrontato, rischia di svuotare la professione dall’interno. C’è di peggio, sicuramente, perché i docenti non vivono nemmeno lontanamente i ritmi lavorativi di altre professioni, anzi, ma in primo luogo non è una gara a chi arriva prima all’esaurimento nervoso, e poi l’insieme di fattori elencato in precedenza basta per provare un certo imbarazzo, in un consesso pubblico, nel dire che si è insegnanti. Non accade per nessun’altra professione a cui si accede con una laurea, e dovrebbe fare riflettere.

Come se non bastasse, c’è chi si spinge a immaginare che l’intelligenza artificiale possa presto sostituire i docenti. Si è cominciato con la Dad, e con ineguagliata velocità si è giunti a confondere un’enciclopedia di saperi come la AI con l’insegnamento fatto di calibrazione nell’intervento giornaliero, di emotività, dialogo e ritmo quotidiano: perché la scuola non è solo trasmissione di contenuti, è relazione: con i docenti, con il sapere, con i libri, con i coetanei, con l’istituzione, con gli altri. Nessuna piattaforma potrà mai sostituire la presenza, lo sguardo, la voce: in Dad questo si è capito, sebbene sia servita in momenti emergenziali, quando della Dad si è fatto abuso, tenendo le scuole chiuse molto, troppo rispetto al resto d’Europa. L’intelligenza artificiale potrà anche essere un alleato prezioso, ma mai un sostituto: un insegnante non è insostituibile perché “spiega meglio” o “ne sa di più”, ma perché sta con — con gli studenti, con i colleghi, con la comunità. Ed è in quell’“essere con” che si gioca tutto il senso della scuola.

Tocca dunque a noi insegnanti decidere se trasformare ogni ora in un rito burocratico o in un’occasione di incontro. Tocca a noi spezzare la spirale negativa della lamentela e provare a restituire senso e qualità anche quando tutto intorno sembra dire il contrario. Tocca a noi ricordare che le vite degli altri – dei nostri studenti, dei colleghi, dei genitori – non sono fastidi da sopportare, ma materia viva da capire, accogliere, educare. Non serve eroismo, ma mestiere; non vocazione, ma professionalità e un po’ di volontà. Servono serietà, preparazione (certo!), e quella scintilla che accende una lezione quando chi insegna ci crede davvero. Se vogliamo una scuola migliore — più solida, più vera, più giusta — dobbiamo cominciare noi, qui e ora. Migliorandola ogni giorno un poco: nelle parole, nei gesti, nel modo in cui entriamo in classe. Perché la scuola, nel bene e nel male, è una cosa semplice e radicale insieme. E la scuola siamo noi: non possiamo attendere che qualcuno cambi le regole, allora cambiamo noi il modo di viverle.

Autore
Panorama

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