Sandokan chiude partendo verso Mompracem e la seconda stagione

  • Postato il 17 dicembre 2025
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Il Quotidiano del Sud
Sandokan chiude partendo verso Mompracem e la seconda stagione

La prima stagione di Sandokan si chiude con un finale travolgente: la Tigre della Malesia, al timone con la sua amata Marianna, salpa verso nuove avventure, dirigendosi verso l’Isola di Mompracem e aprendo le porte alla seconda stagione.


La prima stagione di Sandokan si chiude con un finale emozionante, che celebra l’epopea di un eroe leggendario. Sandokan, interpretato da Can Yaman, emerge come una figura ardente e indomabile, tra coraggio, tormento e desiderio di giustizia, mentre affronta nemici e sfide che mettono alla prova il suo cuore e la sua determinazione. Al suo fianco, Marianna (Alanah Bloor) dimostra coraggio e lealtà, affrontando giungle e pericoli pur di restare accanto all’uomo che ama. Le ultime scene della stagione uniscono azione e poesia, battaglie e silenzi, concludendo il racconto in modo intenso e lasciando aperta la porta a nuove avventure.

Oltre 4 milioni di spettatori e un 25,4% di share hanno consacrato il celebre pirata, riportando al centro dell’immaginario collettivo uno dei miti più amati della letteratura italiana. Proprio il 16 dicembre, prima della messa in onda degli ultimi due episodi, è arrivata la notizia che corona questo successo: la serie ha vinto il Premio Capri TV Series 2025 come Serie Televisiva dell’Anno, mentre Alessandro Preziosi, interprete di Yanez de Gomera, riceverà il Capri Person of the Year Award.

Non si tratta di un semplice remake: la miniserie è un colossal moderno, ambizioso e visivamente imponente, firmato Lux Vide – Gruppo Fremantle con Rai Fiction e il supporto della Calabria Film Commission, diretto da Jan Maria Michelini e Nicola Abbatangelo. Quattro serate che hanno saputo unire azione e poesia, battaglie e silenzi, adrenalina e introspezione, dando vita a un racconto solido e moderno, ispirato al genio di Sergio Sollima e alle pagine infuocate di Emilio Salgari. Fondamentale il contributo creativo di Alessandro Sermoneta, Scott Rosenbaum e Davide Lantieri, con la supervisione produttiva di Luca Bernabei e le scenografie di Luca Merlini. Dopo il grande debutto su Rai 1, la serie approderà anche su Disney+, confermando la sua vocazione globale.

Sandokan: il racap degli ultimi episodi della prima stagione

C’è un momento, nella penultima puntata di Sandokan, in cui il fuoco divampa nella giungla e un uomo combatte da solo contro il destino. Quel momento ha un titolo che pesa come una sentenza: “La morte di un pirata”. Ma dietro quel nome si nasconde molto di più di una fine. È l’inizio di una leggenda. Un episodio denso di colpi di scena, stratificato, che lavora per contrasti – civiltà e barbarie, amore e potere, verità e menzogna – e che prepara, scena dopo scena, la nascita definitiva della Tigre della Malesia.

Londra: i retroscena sulla morte della madre di Marianna

L’episodio si apre a Londra, in una stanza chiusa come una tomba: una donna si lascia morire. Non c’è violenza apparente, non c’è clamore. C’è solo l’abbandono. È la madre di Marianna, e la sua morte – che scopriremo non essere ciò che sembra – è il primo tassello di un mosaico di menzogne, potere e colpa. La scena è costruita con una freddezza che colpisce, perché anticipa il tema centrale dell’episodio: la violenza che non fa rumore, quella che si consuma nelle stanze del potere e nelle decisioni prese “per il bene di tutti”. Non è solo fisica, ma psicologica, istituzionale, coloniale.

Il passato irrompe nel presente con un flashback che inchioda il console alle proprie colpe e torna a chiedere il conto. Da qui in avanti nulla sarà più lineare, nulla più innocente. Ogni personaggio è chiamato a scegliere chi essere, e a pagare il prezzo della verità.

Marianna al fianco di James Brooke

Marianna, accanto a Lord James Brooke (Ed Westwick), guarda l’orizzonte ma pensa alla giungla. A Sandokan. Alle parole scambiate, agli sguardi, al mondo che ha intravisto e che ora non riesce più a dimenticare. Il mare aperto fa da contrappunto alla sua inquietudine interiore. Marianna è cambiata. Non è più la giovane lady da proteggere, ma una donna che riconosce la propria trasformazione. Si guarda allo specchio, si pettina, beve brandy dalla bottiglia. È un gesto semplice, ma potentissimo: la caduta della maschera della lady.

Lord Brooke la osserva e commenta che stare con i pirati l’ha trasformata. Lei ribatte con una domanda che attraversa tutta la stagione: “In meglio o in peggio?”. È il momento in cui Marianna smette di essere oggetto del racconto e diventa soggetto. Sfida con le parole, incalza con le domande. La giungla l’ha segnata, Sandokan l’ha risvegliata. E Brooke lo vede, lo teme, lo desidera. Tra loro nasce un’intimità fatta di sguardi, confidenze, promesse di futuro. Ma è un futuro che odora di ambizione e di potere.

Il dialogo con il sergente Murray  (John Anna) è rivelatore: lui cerca di rassicurarla, presto riabbraccerà suo padre. Ma quando lei chiede dei Dayak, della Malesia, lui diventa evasivo. Il silenzio maschile, istituzionale, militare, è una risposta più eloquente di mille spiegazioni. Il mare aperto contrasta con la prigionia interiore che già comincia a stringerla.

Sandokan e la scelta del sacrificio

Nella giungla, Sandokan compie la scelta più radicale: restare. Avvisa il popolo dell’arrivo dei soldati del sultano. Le donne, gli anziani, i bambini verranno nascosti nel villaggio dei Kayan. Gli uomini combatteranno. È una decisione che pesa come una condanna, perché Sandokan sa di essere visto come una minaccia, persino dai Dayak stessi. Si avverte l’ombra del tradimento. Sani chiede dove sia Marianna. La risposta di Sandokan è una ferita ancora aperta che brucia: «Lei ha fatto la sua scelta, io la mia». Yanez (Alessandro Preziosi), Sambliong (Gilberto Gliozzi) ed Emilio Salgari (Samuele Segreto) decidono di partire per Jakarta con il resto della ciurma. Sandokan resta solo, ancora una volta, per salvare un popolo che non è nato per essere schiavo.

La sequenza dell’attacco al villaggio è una delle più forti della puntata. Gli uomini del sultano arrivano e trovano il vuoto. La trappola è pronta. Uno dei Dayak appicca il fuoco. Le fiamme che avvolgono la giungla diventano una metafora visiva dell’espiazione. Sandokan combatte da solo, con la spada, con il corpo, con acrobazie quasi irreali. È un eroe epico, ma tragico. Il giovane della tribù rifiuta di intervenire e, nascosto insieme ai suoi uomini nella foresta, lo osserva durante il combattimento: Sandokan ha portato il male, deve pagare.

Gli uomini del sultano sono troppi. La Tigre viene sopraffatta. Quando cade, ferito, Sandokan non è solo un uomo che perde una battaglia. È un simbolo che viene sacrificato. I Dayak fuggono senza aver combattuto e raccontano al resto del popolo una bugia necessaria: il loro eroe è morto in battaglia. Sani (Madeleine Price) si sente responsabile: è stata lei a spingerlo a ribellarsi, a credere che la libertà fosse possibile.

La caduta della Tigre

Sandokan viene trascinato davanti al sultano come un trofeo di guerra, il corpo segnato dalle ferite, lo sguardo ancora fiero nonostante le catene. La sala del trono è un luogo di ostentazione e minaccia: ori, drappi, guardie armate. Il sultano lo osserva dall’alto, con la calma crudele di chi crede di avere già vinto. La sua voce è melliflua, insinuante. «Qual è il tuo prezzo?» chiede. «L’oro? Le donne? L’amnistia per te e per il tuo popolo? Posso darti tutto questo». È l’offerta del potere coloniale: comprare l’anima prima ancora del corpo. Ma Sandokan non abbassa lo sguardo. Con un filo di voce, ferma e carica di disprezzo, risponde: «Tu non sei un re. Sei solo il servo del console inglese».

La maschera del sultano si incrina. I suoi occhi scendono sulla collana che Sandokan porta al collo: la zanna di tigre. La riconosce. Un ricordo riaffiora, lontano e sanguinoso. Si avvicina, lo scruta con rabbia crescente. «L’ultima volta che ti ho visto», incalza, «stavi sterminando il mio popolo», aggiunge Sandokan. Poi la domanda, un’accusa più che una richiesta: «Chi sei tu?». Sandokan solleva il capo, stringe i denti, e pronuncia parole che non sono solo un nome, ma una dichiarazione di identità e di destino: «Sono il figlio della tigre». È in quell’istante che ogni possibilità di trattativa svanisce. Il sultano esplode in un ordine secco, definitivo. Vuole spezzarlo, umiliarlo, usarlo come strumento di terrore. «Torturatelo», comanda, «finché non rivelerà dove si nascondono le tribù ribelli». La scena si chiude così: Sandokan è consegnato al dolore, ma ancora intatto nello spirito. La Tigre può essere incatenata, ma non domata.

La fuga di Yanez, Sambliong e Salgari

In parallelo, Yanez, Sambliong ed Emilio Salgari assistono all’orrore delle miniere. La schiavitù è mostrata senza filtri: corpi scheletrici, violenza, gole tagliate. Per Yanez è un trauma che riapre antiche ferite: il popolo che condusse alla ribellione che veniva ucciso senza pietà davanti ai suoi occhi e il ricordo di Sambliong e della sua voce perduta. Emilio chiede: «Cosa possiamo fare?». La risposta è il silenzio. E la fuga sembra l’unica opzione possibile. Ma il giovane Salgari non accetta di lasciarsi trascinare dal destino: si getta in mare per tornare indietro. Una rivelazione morale: non si può restare spettatori; bisogna scegliere.

Il confronto tra Marianna e Brooke

Il dialogo tra Marianna e Brooke è uno dei più complessi dell’episodio. Marianna rivela che Sandokan è un Dayak, che il console ha sterminato la sua tribù al comando di un battaglione inglese. Racconta la giungla, la prigionia diventata scoperta, l’uomo che tra i Dayak è diventato altro. Brooke ascolta, comprende, ma non prende una posizione netta. Insinua il dubbio sulla manipolazione di Sandokan, relativizza, sposta il discorso. È qui che il personaggio del gentleman dal “sangue misto” comincia a mostrare la sua ambiguità: empatico, affascinante, ma profondamente legato all’idea di potere. Quando asserisce che Sandokan odia tutti – il sultano, gli inglesi, forse Marianna stessa – sta parlando anche di sé. Intanto inizia a posizionarsi come alternativa possibile, come rifugio emotivo.

Labuan: il teatro dell’ipocrisia

Il ritorno a Labuan è un trionfo di facciata. Abbracci, sorrisi, dichiarazioni pubbliche. Ma ogni gesto è una recita. Brooke viene accolto come un eroe. Il suo ingresso è solenne, quasi trionfale: sguardi riconoscenti, strette di mano, un’aura di gratitudine che lo avvolge e lo innalza agli occhi di tutti. Quando gli viene offerta una ricompensa dal console, lui la rifiuta con apparente modestia. Sostiene di non volere nulla, di aver riportato Marianna a casa solo per amore. È una dichiarazione che lo consacra definitivamente come uomo d’onore, in netto contrasto con l’ombra del sultano.

Brooke non esita a puntare il dito contro di lui: racconta come abbia tentato di sviare le ricerche e provato a eliminare sia lui che Marianna. Un piano sporco, condotto con abilità, senza lasciare tracce evidenti. Ma questa volta la verità ha un testimone: il sergente Murray. Non ci sono più dubbi: il sultano ha mentito. E non solo sulla sorte di Marianna. Brooke aggiunge un dettaglio decisivo, destinato a far tremare gli equilibri del potere: nel Sarawak esistono ancora tribù ribelli. Non sono state annientate, come si è sempre sostenuto. E Sandokan si è unito alla loro causa. Gli hanno fatto credere di essere un Dayak, di appartenere a un popolo sterminato dagli inglesi venticinque anni prima. È una rivelazione che riapre una ferita mai rimarginata, un passato che qualcuno ha tentato di seppellire sotto la retorica dell’ordine e della civiltà.

Marianna racconta al padre le confessioni già rivelate a Brooke sul passato di Sandokan e della sua tribù, sull’orrore nelle miniere. Il console ascolta, impassibile. Poi finge sorpresa. I suoi occhi si allargano appena, il volto si irrigidisce in un’espressione studiata, calibrata. Recita la parte dell’uomo colto di sorpresa, dell’autorità tradita. Ma è una maschera. Dietro quella compostezza si intravede la consapevolezza di chi sa che la verità, ancora una volta, è stata piegata al servizio del potere.

Marianna e Brooke si avvicinano sempre di più

Marianna coglie in Brooke un lato più profondo, umano, quasi fragile, e gli confida le sue perplessità, il disagio crescente per ciò che ha visto e saputo sul trattamento riservato agli indigeni. Non parla da ribelle, ma da donna che ha aperto gli occhi e non riesce più a richiuderli. Brooke l’ascolta con attenzione, e per un attimo sembra davvero pronto a tutto. Marianna allora si apre ancora di più. Racconta che sua madre era a Londra, ma lì si sentiva prigioniera, soffocata da una vita che non le apparteneva.

Brooke la guarda e, con parole misurate, le restituisce un’immagine dolorosamente lucida: ora è lei a essere prigioniera, non a Londra, ma a Labuan. In quella frase c’è tutta la consapevolezza del momento che Marianna sta vivendo, sospesa tra due mondi che non la rappresentano più. Poco dopo, Marianna si ritira nelle sue stanze e va a dormire, ignara dell’orrore che l’attende al risveglio.

Labuan: Sandokan consegnato al console – la Tigre della Malesia di fronte al potere

All’alba, appena oltre le mura del consolato, la realtà le esplode addosso con una violenza insostenibile. Nel cortile, inginocchiato e incatenato, c’è Sandokan. Il corpo è segnato dalle torture del sultano, il volto tumefatto e insanguinato, lo sguardo stremato ma ancora fiero, fisso sul console. Marianna corre verso di lui senza esitazione, travolta dalla disperazione. Si scaglia contro il sultano, lo insulta, lo definisce vigliacco. Poi prende il volto di Sandokan tra le mani, sente il sangue caldo sulle dita, realizza fino in fondo ciò che gli è stato fatto. Il mondo le crolla addosso. Le forze la abbandonano e sviene.

Un medico accorre per visitarla, ma Marianna, appena riprende conoscenza, lo manda via. Non vuole essere osservata, catalogata, curata come un problema. Dietro la porta socchiusa, però, il medico origlia e pone una domanda che suona come una condanna: chiede al padre e alla zia se in famiglia esistano casi di isteria. La zia risponde senza esitazione, con una freddezza che gela il sangue: la madre di Marianna è morta suicida in un manicomio. È una versione ufficiale, definitiva, costruita per chiudere ogni discussione. Il medico annuisce e conclude che l’unica soluzione per Marianna è portarla in un centro di cura a Londra. La stessa Londra che era stata la prigione di sua madre.

Rimasta sola, Marianna prende l’abito e la lettera della madre, gli unici ricordi che le sono rimasti. Ma tra le balze del vestito scopre qualcosa di inatteso: altre lettere, nascoste con cura. Sono il racconto della verità. La madre scrive di aver seguito il marito a Londra, mentre lui era sempre più accecato dalla sete di potere e dalla carriera. Partiva spesso, lasciandola sola, confinata in una casa che non sentiva sua. Le sue giornate le trascorreva con la vera padrona di quel palazzo: la zia Francis. Poi è nata Marianna, un dono dal cielo, una luce inattesa. Ma per la zia, Marianna era una creatura da proteggere dall’influenza della madre.

Quando la madre ha tentato di fuggire, di riprendersi la propria libertà, ha commesso il passo falso che la zia aspettava. Approfittando dell’assenza del padre, l’ha fatta rinchiudere in manicomio. Non per follia, ma per controllo. L’ultima richiesta della madre è un’eredità morale che pesa come un giuramento: difendere sempre la propria libertà, combattere, essere se stessa. Solo così, scrive, la sua morte non sarà stata invano. In quel momento Marianna comprende che la sua storia, come quella di Sandokan, è stata costruita su una menzogna. E che la prigionia che la attende non è una malattia, ma una scelta imposta.

L’amore come scelta estrema

Quando Marianna chiede al padre di liberare gli schiavi e concedere la grazia a Sandokan, il conflitto diventa insanabile. Il console parla di dovere, di progresso, di sacrifici necessari. Marianna vede solo ingiustizia. La fuga sulla scogliera è una scena potentissima: Marianna è pronta a morire piuttosto che tornare prigioniera. Brooke la ferma, le offre un patto crudele. Sandokan vivrà, ma lei dovrà rinunciare a lui. È una scelta che Marianna accetta consapevolmente, trasformando l’amore in sacrificio.

La morte (apparente) del pirata

Grazie a Murray, Marianna trascorre l’ultima notte con Sandokan in cella. È una scena intima, struggente, fatta di confessioni e promesse. Sarà l’ultimo pensiero prima della morte apparente, resa possibile grazie a un preparato dalla madre di Lord Brooke. All’alba, Sandokan è immobile. Creduto morto. Il veleno ha funzionato. La morte apparente diventa strategia narrativa e simbolica: per sopravvivere, la Tigre deve scomparire.

La notizia della morte di Sandokan rivelata alla ciurma

Intanto, la tensione cala sulla locanda come una nebbia pesante. Yanez e Sambliong varcano la soglia e percepiscono qualcosa di strano: alcuni uomini della ciurma, solitamente indomiti e allegri, li fissano con occhi velati di tristezza, segnati da un’ombra di dolore e sconfitta. L’atmosfera è cupa, carica di notizie che ancora devono essere pronunciate.

All’improvviso, Sarkan (Mark Grosy) avanza verso Yanez con passo deciso, il volto teso dall’urgenza. Con voce tremante di gravità, gli rivela la terribile notizia: «Allora non lo sai? Sandokan è morto, catturato e giustiziato dagli inglesi a Labuan. Hanno cercato di tenerlo nascosto, ma la notizia ha già fatto il giro del Mar della Cina».

Yanez rimane paralizzato, incredulo. Il mondo sembra crollargli addosso. La colpa lo assale: perché l’ha lasciato solo? Forse avrebbe potuto impedirlo, avrebbe dovuto essere al suo fianco. Il senso di responsabilità diventa un peso insostenibile, e la disperazione lo spinge verso un gesto simbolico di purificazione: entra in chiesa in cerca di perdono. Davanti all’altare, un prete gli porge il crocifisso e gli domanda se desidera confessarsi. In quel momento, Yanez rivela il suo lato più profondo e umano: un uomo temprato dalla guerra, dai tradimenti e dalla violenza, che ha compreso che la giustizia divina non sempre regna su questa terra, e che a volte occorre farsela da sé.

L’agguato della ciurma di Sandokan a Labuan

La notte cala su Labuan, avvolgendo la città in un silenzio carico di tensione. Gli uomini di Sandokan, guidati da Yanez, si muovono con discrezione tra le ombre. L’obiettivo è chiaro: accertarsi del destino del loro capo e agire con precisione chirurgica.

In un momento di tensione, Yanez tende un agguato a Lord Brooke. Lo sorprende al rientro a Labuan con Marianna e lo affronta con voce tesa, chiedendogli il corpo di Sandokan, convinto che il suo amico sia stato giustiziato. Brooke, però, scuote la testa e con calma rivela la verità: «Non c’è nessun corpo. Sandokan è vivo». Confessa di essere stato lui a orchestrare la fuga di Sandokan, che ora si trova nascosto nella giungla insieme ai suoi fedeli Dayak. La rivelazione è un colpo di scena: Yanez fatica a credere alle parole, ma capisce che la lotta non è finita.

Il confronto tra Marianna e il console

Il confronto tra Marianna e suo padre è carico di tensione emotiva. Il console cerca di spiegarsi, di placare il dolore della figlia: le chiede di non odiarlo per la morte della madre, sostenendo che ogni sua azione è stata dettata dal dovere e dalla visione del progresso. Marianna risponde con lucidità e fermezza: l’odio non le appartiene, ma non potrà perdonarlo per ciò che ha fatto a Sandokan e al suo popolo. Sa che le scelte del padre l’hanno profondamente segnata, e che la sua tribù ha subito enormi sacrifici.

Le promesse che si intrecciano con Lord Brooke

Nel frattempo, Brooke si muove con determinazione. Naviga verso il Sarawak, deciso a mantenere la promessa fatta a Sandokan. Marianna, inquieta, gli chiede se l’eroe della giungla le ha lasciato un messaggio. Brooke le riporta le parole di Sandokan: “Al tuo fianco per sempre”. Sono parole che condensano fiducia, amore e impegno, e che confermano la profondità del legame tra i due. Brooke sottolinea di aver mantenuto fede al patto: ha salvato la vita di Sandokan, dimostrando lealtà e coraggio. Le chiede se veramente ha rinunciato a lui; Marianna conferma di sì, ma spiega che il suo gesto non era un distacco definitivo, bensì un modo per dare a Sandokan la speranza di rivederla.

Infine, Brooke rassicura Marianna: non dovrà più farsi carico di dolore e conflitti passati. Salperanno insieme sulla Royalist, lasciandosi alle spalle la storia tormentata. Nel frattempo, Sandokan viene condotto dagli uomini di Brooke nella giungla, pronto a liberare il popolo Dayak e a riprendere il suo ruolo di guida e difensore della libertà. È l’inizio di una nuova fase, in cui il coraggio e la lealtà determinano il destino di intere comunità.

Il ritorno di Sandokan nella comunità Dayak

La scena è carica di pathos e simbolismo. Sandokan arriva silenzioso alle spalle del vecchio capo tribù, un uomo saggio e rispettato, che lo percepisce immediatamente. Con uno sguardo tra sorpresa e riconoscimento, rivela di aver sempre saputo che Sandokan non era morto. Come? Uno spirito guida, il padre di Sandokan, gli aveva sussurrato la verità, guidando la sua fede e la sua speranza.

Senza esitazione, il capo tribù conduce Sandokan davanti al resto del popolo. Sani, visibilmente commossa e sollevata, corre ad abbracciarlo. Ma non tutti sono pronti a gioire. Il fratello di Lamai, che in precedenza aveva dichiarato Sandokan morto, si oppone con diffidenza. Gli domanda perché il sultano lo abbia risparmiato e cosa Sandokan avesse ottenuto in cambio. La risposta è semplice e potente: «Il mio sangue. Mi hai lasciato da solo a combattere».

La tensione cresce, e il Dayak lo sfida apertamente a combattere. Ma Sandokan, con calma e autorità, getta la spada a terra. Non vuole combattere. Sfida accettata o no, chi volesse ucciderlo dovrà farlo davanti a tutti. Il gesto rompe l’ostilità: il fratello di Lamai fa un cenno, e in un silenzio carico di emozione, tutto il popolo si inginocchia in segno di rispetto. Sandokan sorride e tende la mano al “fratello”, dicendogli di alzarsi. Poi offre un dono al popolo: le armi, simbolo di fiducia e condivisione del potere. Sani, col cuore pieno, confessa che ama la vita e che, se fosse rimasta a Labuan, avrebbe avuto sicurezza e longevità, ma mai libertà.

Il capo tribù, con un gesto solenne, consegna a Sandokan il copricapo di tigre che un tempo apparteneva a suo padre. Sandokan aggiunge la zanna che porta come collana, completando il simbolismo della continuità e della rinascita. Il capo tribù proclama: «Padre e figlio si sono riuniti. Il capo guerriero è tornato» È un momento di riconciliazione, di celebrazione della vita, della libertà e dell’eredità della Tigre della Malesia.

I Dayak tendono un agguato alle caverne e neutralizzano i soldati del sultano. Sani, con coraggio e determinazione, corre a liberare il fratello e gli altri prigionieri nelle miniere. Tra loro ritrova anche Emilio Salgari, che era stato catturato durante un tentativo di fuga per salvare il fratello. La sua liberazione rappresenta non solo un atto di giustizia, ma anche la riunione dei protagonisti chiave della ribellione, pronti a unirsi di nuovo sotto la guida di Sandokan.

La ribellione del popolo Dayak

Il popolo Dayak, armato di fucili e guidato dall’astuzia dei suoi guerrieri, prende rapidamente il sopravvento sugli avversari. Il rumore degli spari si mescola al fragore della giungla e alle urla degli uomini del sultano, sorpresi dalla resistenza e dalla coordinazione dei ribelli.

Nel frattempo, altri gruppi Dayak controllano le miniere in cui erano stati ridotti in schiavitù i loro compagni. I prigionieri, liberati in anticipo, tendono un agguato ai soldati del sultano, uccidendoli con precisione. Dal mare, la nave del sultano tenta di intervenire, lanciando bombe contro gli uomini di Sandokan. Tra le esplosioni, alcuni guerrieri cadono, e Sani, mentre cerca di proteggere Emilio Salgari, resta ferita. Nella mente di Sandokan risuonano le parole di Yanez: «Li ho convinti a ribellarsi, a impugnare le armi… e sai come è andata a finire?». Il pensiero dei sacrifici, del coraggio dei suoi uomini, lo rafforza. Emilio, rivolgendosi a Sani, confessa che se avesse scritto lui questa storia, il finale sarebbe stato diverso: l’amore avrebbe trionfato. In quel momento, la tensione lascia spazio a un gesto di emozione pura: i due si baciano, un momento di intimità e sollievo nel cuore del conflitto.

Ma la guerra non è finita. Le bombe continuano a cadere, e proprio quando la situazione sembra disperata, la nave della ciurma di Sandokan interviene in tempo, abbattendo la nave del sultano e ribaltando le sorti della battaglia. Il bene trionfa, la giustizia della ribellione si manifesta pienamente. Yanez finalmente incontra Sandokan. L’emozione è intensa: entrambi temevano di non rincontrarsi mai più. Yanez, con voce carica di gratitudine e rispetto, gli dice: «Le rivoluzioni finiscono bene quando non ti manca la fede. Loro hanno creduto in te». Sandokan sorride, profondamente commosso, e Yanez aggiunge di aver ritrovato non solo l’eroe, ma anche un fratello. I due si abbracciano, suggellando la loro amicizia e la vittoria del coraggio, della lealtà e della fede condivisa.

Trame di potere

A Labuan, le trame di potere e i destini dei protagonisti si intrecciano in un turbine di inganni e passioni. Il console affida a Lord Brooke il comando della guarnigione per sedare la rivolta, un gesto che un tempo sarebbe stato impensabile. Brooke, però, non si accontenta: non vuole solo il cuore di Marianna, vuole il trono. Intende convincere il console a deporre il sultano e a nominarlo primo rajah del Sarawak, tracciando un’ombra di ambizione sul suo amore.

Nel frattempo, Sandokan e Yanez si preparano alla battaglia decisiva. È l’ultimo scontro, quello che scriverà per sempre la leggenda della Tigre della Malesia. Murray osserva con sconcerto: l’avvelenamento di Sandokan ha fatto infuriare il console, e Brooke gli propone di diventare il suo braccio destro. Ma Murray, consapevole che il regno inizierà con un massacro, rifiuta, deciso a non farsi coinvolgere in ulteriori inganni.

Yanez discute con Sandokan: Brooke ha dato loro libertà e armi, ma a quale prezzo? Vendetta contro il console e il sultano… e Marianna? Lei ha rinunciato al suo amore per salvare Sandokan, e la loro promessa è dolorosa ma chiara: nessuno dei due rinuncerà davvero all’altro. In quel turbine, Marianna è trattenuta nella sua stanza, sorvegliata dai soldati, mentre la zia tenta di chiederle perdono. Ma un piano segreto le permette di fuggire: tra bicchieri di vino e complicità silenziosa, raggiunge la rimessa delle barche, dove Murray la attende. «Cosa dirò al console?» chiede la zia, e la risposta della milady è semplice: ciò che ha sempre detto, che è pazza.

Il gran finale

Sul mare, Sandokan raduna il popolo Dayak e la sua ciurma: il momento è solenne, le parole affilate come spade. «Tagliamo la testa al sultano!» ordina, e l’assalto al palazzo nemico diventa un turbinio di azione e coraggio. La botola nascosta, la fuga del sultano con oro e schiavi, l’odio e la violenza: ogni dettaglio aumenta la tensione. E poi, il colpo di scena: Marianna appare, pistola alla mano, e pone fine alla tirannia del sultano. «Al tuo fianco per sempre», esclama, correndo verso Sandokan e sigillando il loro amore tra polvere e sangue.

Ma Brooke arriva, e Sandokan comprende il tradimento: Brooke diventa rajah, comandando la guarnigione e puntando al trono del Brunei. La battaglia non è finita. Sandokan annuncia al popolo che la lotta continuerà, sulla terra e sul mare.

Sani, in punto di morte, pronuncia parole di struggente verità rivolgendosi a Emilio Salgari: «I finali peggiori sono quelli che si dimenticano. Racconta la storia di come siamo diventati liberi… la storia della Tigre della Malesia». La giovane donna ha scelto la libertà, e la memoria dei caduti e dei ribelli diventa simbolo di speranza.

Infine, la promessa di Marianna e Sandokan si compie: insieme alla guida del timone, verso Mompracem, “l’isola che scompare”, dove nessuna mappa potrà mai trovarli, liberi dal potere, dalle menzogne e dal passato. La leggenda della Tigre della Malesia si rinnova, tra amore, coraggio e libertà in attesa della seconda stagione.

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