Ripensare all'editoria scientifica dalle buone eccezioni alla regola
- Postato il 6 maggio 2025
- Di Il Foglio
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Ripensare all'editoria scientifica dalle buone eccezioni alla regola
Il prof. Antonio Cassone, membro dell’American Academy of Microbiology, ha scritto una interessante lettera al direttore Claudio Cerasa a proposito del mio articolo in cui auspico l’abbandono del mercato per la pubblicazione scientifica, osservando che riviste gestite da società scientifiche e da enti non commerciali già esistono in gran numero, soprattutto in ambito biomedico, e che proprio queste andrebbero potenziate prima ancora di crearne di nuove. Cita, accanto all’esempio da me portato del Pnas, quello altrettanto valido della American Society for Microbiology, per mostrare che è già possibile gestire in modo efficiente un sistema editoriale scientifico senza ricorrere a strutture commerciali. L’osservazione è corretta e sono ben consapevole del dato che Cassone porta alla mia attenzione, un dato che merita di essere rilanciato con forza: in effetti, una parte consistente delle pubblicazioni scientifiche avviene già su riviste non commerciali, molte delle quali hanno alle spalle una lunga storia di affidabilità, rigore e contributo reale alla comunità scientifica.
È esattamente su questo punto che si innesta la proposta che ho avanzato: non si tratta di ignorare ciò che già funziona, ma di prenderne atto e trasferire verso questo nucleo efficiente tutte le risorse oggi destinate al mantenimento di un sistema commerciale. Le riviste pubbliche e societarie, in molti casi già esistenti e ben strutturate, rappresentano il punto di partenza naturale per una riorganizzazione generale del sistema editoriale. Il problema, come facilmente si può notare, è che queste riviste costituiscono oggi una minoranza e soprattutto non godono del sostegno sistematico necessario per diventare l’asse portante della comunicazione scientifica – tanto che perfino le riviste di accademie prestigiose come quella dei Lincei sono ormai state costrette a passare sotto la proprietà di grandi entità commerciali.
La proposta è quindi di convogliare in modo razionale l’intero flusso di risorse – economiche, organizzative e umane – oggi frammentato tra costi di pubblicazione, abbonamenti e lavoro gratuito, verso un sistema coeso e pubblico, in cui queste riviste possano operare in condizioni di efficienza e competitività. Non si tratta di replicare le distorsioni del modello commerciale in altro contesto, ma di sostituirle con un’infrastruttura progettata per selezionare e certificare conoscenza, non per massimizzare ricavi.
Cassone sfiora nella sua lettera anche un altro punto decisivo: perché questo cambiamento avvenga, non basta offrire canali alternativi, occorre che la comunità scientifica li scelga attivamente. E per farlo, occorre che chi valuta e promuove i ricercatori – e cioè, in gran parte, i ricercatori stessi – modifichi i criteri di giudizio, cessando di equiparare la qualità scientifica alla posizione editoriale in riviste ad alto impact factor. È esattamente su questo meccanismo che si è costruita la dipendenza collettiva dalle grandi case editrici: sul fatto che la reputazione di un ricercatore viene ancorata a un indicatore legato non alla qualità dei contenuti, ma alla rendita simbolica di una testata. Finché questa equivalenza sarà mantenuta, nessuna riforma sarà efficace, e i ricercatori continueranno a cedere gratuitamente contenuti e valutazioni a un sistema che monetizza lavoro pubblico in modo opaco.
Per questo la proposta che ho avanzato non è semplicemente quella di aumentare il numero delle riviste pubbliche, ma di riconfigurare l’intero assetto editoriale in modo coordinato, riducendo drasticamente il numero di testate, consolidando standard comuni di trasparenza e qualità, integrando le piattaforme, e soprattutto orientando la valutazione della ricerca su parametri verificabili, non su indicatori di prestigio. È una riforma sistemica, che non può essere lasciata alla buona volontà di singole società scientifiche, ma richiede un impegno collettivo, preciso nelle sue articolazioni tecniche. I vantaggi, come già illustrato, non sono solo qualitativi, ma anche economici: un tale sistema costerebbe meno dell’attuale, garantirebbe maggiore accessibilità, e ridurrebbe le barriere all’ingresso per ricercatori provenienti da contesti meno finanziati.
Le buone riviste già esistono; tuttavia, per trasformarle nella spina dorsale della comunicazione scientifica, occorre non solo riconoscerle, ma sostenerle, coordinarle e valorizzarle nel processo di valutazione della scienza. Non è un cambiamento che avverrà da solo, ma è perfettamente realizzabile, se si decide di farlo. Rimane però un problema, spesso trascurato: abbandonare i grandi editori commerciali significa anche rinunciare a una condizione che oggi essi, per quanto con logiche discutibili, garantiscono centralmente – l’omogeneità delle pratiche editoriali su decine di migliaia di riviste, indipendentemente per esempio dalla nazionalità dei comitati editoriali, dalle affiliazioni accademiche e da altri fattori. Revisione tra pari, correzioni post-pubblicazione, ritrattazioni, gestione dei conflitti di interesse, obblighi di disclosure, archiviazione, citabilità: sono tutti ambiti che, nel bene e nel male, si sono standardizzati attraverso il controllo accentrato degli editori commerciali. Se si vuole costruire un sistema editoriale pubblico e distribuito, bisogna dunque evitare che ogni società scientifica o ente accademico “faccia da sé”, con regole autonome e incompatibili, magari dettate dalla politica nazionale del paese in cui ha sede una rivista. La credibilità della scienza si fonda anche sulla riconoscibilità dei suoi processi interni: chi legge un articolo deve sapere in base a quali criteri è stato accettato, come può essere corretto, quando e come viene ritirato, secondo quali norme si è svolto il giudizio.
È a questo punto che diventa indispensabile un riferimento esplicito e operativo al movimento della Open Science, non come semplice cornice etica o culturale, ma come architettura normativa concreta. Negli ultimi anni, la comunità scientifica internazionale ha elaborato un insieme coerente di principi – trasparenza dei dati, apertura dei codici, tracciabilità integrale dei processi di revisione, disponibilità dei materiali, preregistrazione degli studi, replicabilità dei risultati – che rappresentano oggi lo standard de facto della buona pratica scientifica. Questi elementi non possono essere lasciati alla discrezionalità delle singole riviste o dei singoli enti, né possono essere implementati a geometria variabile. Al contrario, devono essere integrati fin dall’inizio nella struttura del sistema editoriale pubblico come requisiti imprescindibili, formalizzati in protocolli comuni, controllati attraverso audit indipendenti, applicati in modo omogeneo e verificabile.
Solo così si potrà sostituire alla coerenza imposta verticalmente dagli oligopoli commerciali – che garantiscono uniformità editoriale solo nella misura in cui essa serve a ottimizzare i flussi economici – una coerenza fondata su criteri epistemici condivisi. Non si tratta di imitare la centralizzazione, ma di costruire un sistema distribuito che rispetti la pluralità disciplinare senza sacrificare la qualità dei processi. La standardizzazione necessaria – nei tempi, nelle procedure, nelle politiche di correzione e ritrattazione – non deve derivare dal controllo proprietario di migliaia di testate da parte di pochi gruppi, ma dalla convergenza metodologica costruita deliberatamente dalla comunità scientifica, attraverso organismi di coordinamento, linee guida comuni, meccanismi di accreditamento e trasparenza. In questo senso, l’uniformità non è un effetto collaterale della concentrazione economica, ma un obiettivo esplicito della progettazione scientifica. E a differenza della prima, è una uniformità giustificata, verificabile e pubblicamente rendicontabile.
Solo in questo modo si potrà sottrarre la scienza a una dipendenza strutturale da criteri di efficienza economica che nulla hanno a che vedere con la qualità del metodo. E solo così sarà possibile restituire alla comunicazione scientifica il suo ruolo originario: garantire non l’accesso a un mercato editoriale, ma l’affidabilità del sapere su cui si fonda la ricerca, la medicina, l’innovazione e, in definitiva, la fiducia pubblica nella scienza.
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