Resistenza e lotta per la pace, il Cinema Ritrovato di Bologna ha raggiunto 140mila spettatore in 9 giorni

  • Postato il 30 giugno 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Sono stati 454 i titoli in programma del 39° Il Cinema Ritrovato di Bologna. A seguirlo nei suoi 9 giorni di programmazione (21-29 giugno) in 8 sale circa 140mila spettatori di cui 5mila accreditati da tutto il mondo. Ma al di là dei numeri in crescendo e anche senza averla potuta gustare nella sua interezza (ovviamente!), la selezione messa in campo quest’anno dai condirettori del festival è sembrata indicare una narrazione precisa, non casuale, assolutamente focalizzata su qualcosa che tocca con urgenza l’esistenza contemporanea: la necessità di ribellarsi, di resistere, di lottare per la pace e in generale per un mondo migliore, di uomini e donne.

E la straordinarietà della considerazione risiede nel fortunato incrocio tra i nuovi restauri di capolavori o grandi film del passato rispetto alle stringenti tematiche attuali. Un esempio folgorante proviene proprio dai film di apertura e chiusura mostrati in Piazza Maggiore, rispettivamente Incontri ravvicinati del terzo tipo – Director’s Cut (USA, 1977) di Steven Spielberg (proiettato in 70mm) e Sciopero (URSS, 1924/25) di Sergej M. Ėjzenštejn (proiettato in 35mm e musicato dal vivo). Se il primo può leggersi come la riconciliazione tra l’essere umano e l’alieno (= il diverso) che nell’America di Trump, ma anche negli stati guidati da governi sovranisti e nazionalisti, ha il sapore di una autentica sfida, il secondo è uno dei più eclatanti manifesti della ribellione al potere dall’alto (nella fattispecie storica al regime zarista) da parte del popolo.

Sempre in Piazza Maggiore, davanti a un pubblico che la affollava senza più posti “per terra”, si sono viste, tra le altre, un paio di opere americane all’insegna della “rottura”: Qualcuno volò sul nido del cuculo (USA, 1975) di Miloš Forman e Cinque pezzi facili (USA, 1970) di Bob Rafelson, entrambi titoli emblematici della New Hollywood e interpretati da uno straordinario Jack Nicholson, che rappresentava il nuovo volto dell’attore-contro. Due film che si ribellano a ogni forma di sistema costituito, tanto prendano corpo in un ospedale psichiatrico quanto in una famiglia benestante nello stato di Washington. Insomma, quattro film che non solo hanno segnato profondamente il proprio tempo, ma che continuano a parlarci sia per il valore intrinsecamente cinematografico espresso, sia per la loro spinta al cambiamento socio-politico che purtroppo è tornata a essere un’emergenza collettiva e individuale del nostro tempo.

Ma non solo Piazza Maggiore. Nelle sale, tra le mille proposte, sono sfilate alcune retrospettive paradigmatiche di un “sentire” antico quanto contemporaneo. Si pensi alla rassegna dedicata al grandissimo, poliedrico e sottovalutato regista statunitense Lewis Milestone (Lewis Milestone: uomini e guerre) con una selezione di titoli che evidenziano la sua capacità e il suo coraggio di raccontare la guerra nelle sue accezioni più mortifere e disumanizzanti, realizzati negli anni ’30 o in un’epoca coeva alla II Guerra Mondiale in cui il sentimento del patriottismo era prioritario. War movie come il capolavoro pacifista ante litteram All’Ovest niente di nuovo (1930) dal romanzo di Remarque, allo struggente Salerno, ora X (1945) ma anche il devastante ed esistenzialista Uomini e topi (1939) adattato dal capolavoro di Steinbeck, che mette già la parola fine al Sogno Americano.

E, seppur assai diversamente, hanno espresso un’opposizione al maschilismo e patriarcato le retrospettive fra loro “dialoganti” dedicate rispettivamente all’inimitabile Katharine Hepburn (Kathrarine Hepburn: femminista, acrobata, amante) e al grande autore giapponese Miikio Naruse (Dolore e passione: il cinema di Miikio Naruse prima della guerra): se la prima ha fatto rigustare al pubblico i personaggi spesso controcorrente e ribelli incarnati dalla mitica attrice statunitense, la seconda ha messo in scena le donne sottomesse del Giappone anni ’30 con l’evidente intenzione di denunciarne la condizione, già in quell’epoca. Unica eccezione, straordinariamente e squisitamente femminista, è la protagonista del bellissimo I dolori di una donna (Nyonin aishu, 1937) la cui protagonista costretta a un matrimonio combinato e ridotta a schiava di famiglia, si ribella e se ne va.

Ultime non certo per importanza, sono state le conversazioni con eccezionali autori del presente a loro modo “ribelli” o “resistenti”: da Terry Gilliam a Jim Jarmusch, da Jonathan Glazer ad Asghar Farhadi.

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Il Fatto Quotidiano

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