Referendum, il tallone d’Achille dei leader di sinistra: ogni leader cade sulla prova decisiva

  • Postato il 28 giugno 2025
  • Di Panorama
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Smettiamola di litigare sul passato», ammonisce il leader più litigioso della sinistra in spiaggia. Matteo Renzi la sa lunga, ha toccato con mano quanto un referendum possa essere devastante, possa costringerti a passare dal 41 al 2 per cento, possa derubricarti da premier a comparsa della Repubblica, da kingmaker a conferenziere nel deserto, da uomo copertina dell’Economist (anche se con il gelato in mano su una barchetta che affonda) a «punchingball» di Lilli Gruber. Eppure non gli hanno dato retta, Maurizio Landini ed Elly Schlein volevano provare l’ebbrezza della spallata virtuale al governo e ci sono cascati. Trenta per cento, tutti al mare. Altro referendum, altro giro, altra batosta. Esattamente come capitò a lui nel gelido autunno del 2016. Morale, per loro arriva un’estate torrida. Non quella delle feste dell’Unità con salamelle e direttori di giornale a intervistarli sul palchetto, ma quella della resa dei conti.

Passo indietro necessario: la sinistra ha un pessimo rapporto con i referendum ma non ce la fa a starne lontana. È ferma ai paleolitici tempi democristiani di divorzio e aborto, mezzo secolo fa, Nilde Iotti in tailleur écru. Da allora non ne vince uno (sul nucleare il consenso fu parecchio trasversale), con legnate assortite quando schierò le truppe cammellate contro la caccia, a favore dell’obiezione di coscienza in divisa, sulla legge elettorale, sul finanziamento ai sindacati, sul divieto di licenziare e contro i proprietari terrieri (record negativo di Fausto Bertinotti), sull’utero in affitto (nell’agenda rossa dal 2005). 

Eppure erano gli anni d’oro di Marco Pannella, reso immortale nella sua autoreferenzialità mediatica da un duetto in Parlamento. Pannella, dopo un richiamo a essere conciso: «Devo dire che se dovessi divagare troverei, per farlo, soggetti migliori di voi». Franco Evangelisti: «Ti basta uno specchio». A rimorchio di quel maestro, su spinello libero ed eutanasia la sinistra movimentista e i radicali di Riccardo Magi, con l’ausilio del braccio operativo Marco Cappato, tentano da anni la spallata ma non riescono mai ad arrivare alle urne. Un disastro, una voglia di farsi interpreti delle volontà di un popolo che non li vuole neppure dipinti sui muri. Una frustrazione che ha portato Magi, al termine dell’ultima Waterloo, a lanciare un nuovo referendum per abolire il quorum dei referendum. Puro onanismo politico.

«In questi casi ci sono due errori da non commettere», spiega il sociologo e politologo Luca Ricolfi. «Personalizzare il referendum e utilizzarlo surrettiziamente per fare uno sgambetto al governo». L’armata brancaleone ne ha commesso un terzo: tentare di travestire da vittoria la stangata alle urne. Francesco Boccia, vicesegretario e consigliori di Schlein, si è mascherato da costituzionalista della domenica con il giochino dei 12 milioni di votanti, calembour indigesto agli stessi elettori di sinistra che – fedeli alla linea – si erano recati al seggio. «Imbrogliare le carte è disonesto, noi abbiamo perso e voi vergognatevi», è stato il commento standard sui social. E invece dell’avviso di sfratto a palazzo Chigi è arrivato il warning al Nazareno. 

Lo ha recapitato Base Riformista, la corrente più numerosa delle 11 che creano depressioni atlantiche dentro il Pd senza neppure l’anticiclone delle Azzorre a evitarle. Gli ex renziani non solo hanno voltato le spalle alla consultazione voluta da Landini per abolire il Jobs Act, ma se la sono legata al dito. Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo: «Ancora una sconfitta profonda, evitabile, un regalo enorme alle destre. Qui è tutto da rifare. Siamo davanti alla necessità di rivedere tutto, e serve la capacità inclusiva dei riformisti. Fuori dalla nostra bolla c’è un Paese che vuole futuro e non rese dei conti». Giorgio Gori: «Un autogol prevedibile. Una battaglia ideologica anacronistica al traino della Cgil». E poi Lia Quartapelle, Filippo Sensi ed Elisabetta Gualmini: «Un assurdo referendum contro se stessi». Pure Laura Boldrini è in ebollizione: «Il quesito sulla cittadinanza è stato posto male, un imperdonabile errore di comunicazione». 

Traduzione: vogliono tutti il congresso, entità destinata a togliere il sonno al Pd più dell’afa notturna. È la parola più odiata dalla segretaria, che da due anni scappa dalla consultazione per evitare strappi e continuare nella sua politica «ambigua e gruppettara», come fotografa un vecchio nostalgico renziano. Ma Schlein non teme il possibile blitz, anzi fa sapere ai ribelli che potrebbe perfino chiederlo lei, quel congresso, per mettere a tacere il dissenso. «Se si va alla conta finisce 80 per cento a 20 per cento per lei, non c’è partita. E loro lo sanno bene», è la linea dura in direzione. Curiosamente, la garanzia di lunga vita arriva dal leader dei riformisti, il Bruce Willis di Campogalliano, quello Stefano Bonaccini che da Bruxelles preferisce non accendere fuochi sotto la poltrona della segretaria. «Quando due terzi degli italiani non risponde è necessario riflettere. Ma senza traumi, non dobbiamo abolire ma costruire».    

Il nervosismo è comunque palpabile. Anche per alcune prese di distanza inattese: Paolo Gentiloni ed Enrico Letta non hanno votato, marcando la distanza da Schlein. I colonnelli di Base Riformista hanno partecipato all’evento di Renzi e Calenda a Milano. Il viceré di Napoli Vincenzo De Luca ha sferzato tutti: «Bravi, la campagna si è conclusa non con un mezzo disastro ma con un disastro intero». Ed è pronto a strumentalizzare il tutto per portare a casa il suo terzo mandato. Per il Pd si preannuncia una lunga estate calda. Con i numi tutelari che esprimono il loro fastidio in modi opposti. Pierluigi Castagnetti tuonando: «Se continuiamo su questa strada andiamo a sbattere». Romano Prodi tacendo. E Goffredo Bettini consigliando di andare al Decathlon: «Serve una tenda. Una grande tenda che contenga tutti i mondi possibili, dai partiti alle associazioni, alle liste civiche. Allargare, allargare, allargare».

A forza di allargare si arriva all’immaginifica Cgil di Landini, l’altro protagonista del disastro. Per lui i problemi sono minori, non ha una dialettica interna da rispettare. Ha già messo in archivio la scampagnata referendaria: «A dimettermi non ci penso proprio». Ha trasformato in allegria il maggior sindacato italiano in un partito politico, ha mandato al macero la tradizione riformista di Di Vittorio, Lama, Trentin, ha minacciato «rivolte sociali» derubricando le istanze del lavoro a favore di una nuova piattaforma con al centro il woke, le rivendicazioni Lgbtq+, le battaglie ideologiche dell’ultrasinistra. L’istruzione pubblica, Gaza e la triptorelina. E ora osserva dalle sue macerie la guerriglia interna al Pd nella speranza di raccogliere qualche dividendo.

«Da domani voglio più sindacato di strada, più movimento, più ascolto ai giovani», spinge sull’acceleratore l’ex saldatore emiliano, entrando con tutte le scarpe nei dossier di Elly Schlein. Ma soprattutto allontanandosi dalla funzione primaria di garante dei lavoratori, come dimostra una coincidenza illuminante: nei primi tre mesi dell’anno l’occupazione ha toccato i massimi (+432 mila posti di lavoro) proprio mentre Landini si rifiutava ideologicamente di firmare i contratti migliorativi. «Le riforme non si fanno per abrogazione», ecco il siluro della segretaria Cisl Daniela Fumarola, che si è ben guardata dall’accompagnare il collega sull’orlo del baratro. È seguita la nomina dell’ex segretario generale Luigi Sbarra a sottosegretario per il Sud da parte della premier Meloni. 

Scosse di assestamento, effetti di un tracollo che in fondo al muscolare leader postcomunista interessa il giusto. Il suo obiettivo rimane la poltrona del Nazareno. Se n’era accorta anche Susanna Camusso una decina di anni fa quando sbottò: «Landini cancelli qualsiasi ambiguità sul rapporto con la politica, oppure…». Facile sostituire i puntini: oppure fondi un partito. Adesso ce l’ha.

Autore
Panorama

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