Quell’unità sindacale di cui l’Italia ha bisogno. La riflessione di Polillo

  • Postato il 24 dicembre 2025
  • Politica
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Il 2025 passerà alla storia come l’anno della definitiva rottura dell’unità sindacale. Difficile prevedere se si potrà ricomporre. Per il momento non resta che constatare come si sia tornati indietro di quasi 80 anni. A quel 1948 che segnò la fine di un’unità conquistata a caro prezzo: nel fuoco e nel sangue della Resistenza italiana. Allora furono, soprattutto, ragioni di carattere internazionale a determinare quell’esito infausto. Oggi invece è il mito dell’antagonismo, della “rivolta sociale”, a farla da padrone. E a dividere quello che, invece, dovrebbe essere unito.

In quegli anni era stato l’avvio della “guerra fredda”. Alcide De Gasperi che torna dal suo viaggio negli Stati Uniti, con l’idea di estromettere comunisti e socialisti dal Governo di unità nazionale. Furono per primi i cattolici a rompere con il sindacato unitario, sotto la guida di Guido Pastore, che nell’ottobre del 1948, fondò la Libera Cgil. Imitati, alcuni mesi dopo, da socialdemocratici e repubblicani che diedero vita alla Fil-Federazione italiana dei lavoratori. La fase costituente di entrambe le nuove organizzazioni richiese un certo tempo. Ma alla fine – gli inizi degli anni 50 – nasceva prima l’Uil e poi la Cisl.

Da allora una rincorsa estenuante, soprattutto da parte della Cgil, per ricomporre un matrimonio che quegli anni di ferro e di fuoco avevano distrutto. Con episodi che, ancora oggi, in pieno “mercatismo liberal-conservatore”, conservano la loro grandezza. Come fu il “Piano del lavoro” voluto da Giuseppe Di Vittorio, nel 1949. Di impostazione Keynesiana, voleva introdurre negli assetti iper-liberisti della Ricostruzione post bellica, il respiro delle novità dirompenti dell’esperienza anglosassone. O come fu la proposta dello “Statuto dei lavoratori” (1952). Che divenne legge, grazie ai contributi di Gino Giugni e Giacomo Brodolini, ma solo nel 1970. Quasi venti anni dopo.

In questo lungo intervallo la dura sconfitta della Fiom (1955) nell’elezioni della Commissione interna della Fiat, negli anni della repressione scelbiana, costellata di morti tra manifestanti che reclamavano un salario più giusto e condizioni di vita migliori. Una delle pagine più drammatiche della storia del movimento operaio. Sconfitta che Di Vittorio seppe leggere sia nelle cause che l’avevano determinata (le profonde trasformazioni socio-economiche del Paese) sia nel conseguente e necessario rinnovamento politico-programmatico, ch’esse reclamavano.

Nel frattempo l’Italia si trasformava. Da Paese prevalentemente agricolo, degli anni del fascismo, si apriva ad un processo di industrializzazione sempre più spinto. Per assumere le caratteristiche di quel “fordismo” che gli Stati Uniti avevano sperimentato decenni prima, ma che nel Vecchio continente era giunto con grande ritardo ed, in larga misura, lascito della guerra. Catene di montaggio, operaio-massa, prevalenza del terzo livello nella condizione operaia: queste le condizioni, alla base del nuovo metodo di produzione. Ma anche i presupposti su cui ricostruire quell’unità sindacale che il tempo e la “guerra fredda” avevano bruciato.

Fu un processo faticoso, a volte interrotto da momenti di alta tensione, come fu lo scontro sulla scala mobile, gestito direttamente dal Pci di Enrico Berlinguer, contro il parere dello stesso Luciano Lama, che della Cgil era il Segretario generale. Oppure la scelta di Bruno Trentin che, sempre come Segretario della Cgil, nel 1992 sottoscrisse, insieme con Cisl e Uil, uno storico accordo sulla politica dei redditi, pur non condividendone il merito. Per poi dimettersi, per coerenza, da ogni carica sindacale.

Quest’enorme patrimonio di esperienze, di lotte, di sacrifici oggi appare disperso. Cisl, Cgil e Uil appaiono lontani come non mai. Né si può imputare questa distanza al contesto internazionale, come fu nel 1948. Le ragioni, purtroppo, sono più complesse e difficili da individuare. A monte di tutto soprattutto la pigrizia intellettuale del più forte sindacato italiano. Non ce ne vogliano i militanti della Cgil, ma il compito di federatore non può che spettare all’organizzazione più forte. Ne deriva che la frammentazione del movimento sindacale è soprattutto una sua responsabilità.

Cos’è mancato negli anni più recenti? Il non capire il passaggio da un vecchio modo di produzione – il “fordismo” basato sulla centralità operaia – all’articolarsi di un sistema produttivo, ben più complesso. Non più la fabbrica, come un’unica grande cattedrale. Ma un diverso modo di produrre ricchezza: fatto di più tecnologia, maggiore efficenza e migliore organizzazione delle forze produttive. Non più l’uniformità di un modello, ma i mille campanili di un sistema a macchia di leopardo. E con esso le maggiori difformità di un localismo destinato a sconvolgere i vecchi equilibri non solo economico-sociali, ma politici. E con essi il format stesso dell’organizzazione sindacale.

Quel processo ha cambiato il volto dell’intero Paese. Al nord un “nuovo triangolo industriale”: Milano-Bologna-Treviso. Un tessuto iper tecnologico, parte integrante delle grandi catene globali del valore; al centro quel mix di artigianato di classe e produzione di massa; al Sud un’economia tendenzialmente stagnante, appena rivitalizzata dalla spesa aggiuntiva del Pnrr. Nel complesso, una sorta di unicum nel panorama non solo europeo, ma occidentale. Che non siamo riusciti a valorizzare nel modo più adeguato.

Bastano pochi dati per dare un’idea di questa nuova realtà. Negli ultimi 5 anni il saldo più che positivo della bilancia commerciale della manifattura si è concentrato nel Nord-est, con una percentuale più vicina al 60 che non al 50%. Le altre grandi aggregazioni territoriali hanno dato risultati modesti: tra l’11 ed il 17% il contributo del Nord-ovest e del Centro. Sud ed Isole, a loro volta, vi hanno contribuito tra il 3,3 ed il 9,2%.

Ancora più sconcertanti i risultati ad un livello di disaggregazione maggiore. Nel Nord est, infatti, la parte del leone spetta all’Emilia Romagna (in prevalenza) ed al Veneto, che da sole garantiscono più dell’85% del risultato finale. Nel Centro, invece, quel contributo al saldo positivo complessivo deriva quasi esclusivamente dalla Toscana. Mentre le altre Regioni, salvo in parte le Marche, devono far fronte al forte deficit commerciale del Lazio, pari, in media, a più del 50% dell’attivo dell’Italia centrale.

A queste trasformazioni si doveva saper rispondere con strategie adeguate. Articolare su basi decentrate la contrattazione, mettendo in discussione la stessa struttura centralistica del sindacato. Non arrendersi ad affermazioni chiaramente fuorvianti di tecnici e pifferai del padronato. Come si fa a dire che la produttività in Italia è di gran lunga inferiore a quella degli altri Paesi? Fosse vero, non avremmo quelle performance positive che si esprimono in un saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti sempre positivo dal 2014 in poi. Non avremmo la crescita record delle riserve valutarie: le più elevate in Europa rispetto al Pil. Non saremmo finanziatori netti dell’estero, dopo la Germania e l’Olanda.

Soprattutto non avremmo, verso il mercato internazionale, quella continua emorragia di capitali che depaupera il Paese. Gli toglie ricchezza, per accontentarsi di un rendimento finanziario minimo – gli interessi concessi agli investimenti di portafoglio – a causa delle scarse occasioni di investimento all’interno della propria Nazione. Che, a loro volta, sono il riflesso di una domanda interna stagnante, dovuta a salari che non crescono ed una spesa pubblica disordinata e per molti versi del tutto improduttiva. Il vero collo di bottiglia che impedisce all’Italia di avere un tasso di crescita annuo almeno pari alla media europea.

Autore
Formiche

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