Quelli della classe del 1985 | Allyson Felix
- Postato il 19 settembre 2025
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Quelli della classe del 1985 | Allyson Felix
Nel 1985 il mondo aveva il fiatone del Novecento, ma nessuna intenzione di fermarsi. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Mikhail Gorbaciov. L’Italia di Craxi provava a guardare avanti, tra grandi ambizioni ed enormi contraddizioni. Il 1985 era la Guerra Fredda che cominciava a sciogliersi con l’Europa ancora divisa da un muro. L’anno dei Queen al Live Aid con la Thatcher a Downing Street. Maradona già faceva sognare Napoli, mentre l’NBA scopriva Michael Jordan. Ayrton Senna stringeva forte il volante e il mondo piangeva la strage dell’Heysel. Nell’infinità del cielo si scopriva il buco nell’ozono e dalla profondità del mare riemergeva lo scheletro del Titanic. Era il tempo dei walkman, delle VHS impilate accanto a una TV ingombrante. L’anno del Commodore 64, del primo dominio web quando Internet era solo nella testa di un uomo che viveva a Ginevra. Era una Polaroid che scattava il presente e un fax che consegnava il futuro. Tutti cantavano “We Are the World”, convinti che una canzone potesse unire il pianeta. Al cinema usciva Ritorno al Futuro, in libreria Rumore Bianco.
Ma quarant’anni fa nasceva anche una generazione di atleti che avrebbe riscritto regole e infranto record. C’è chi è ancora lì, in prima linea. E c’è chi ha già voltato pagina. Ma le loro carriere, oggi, raccontano cosa vuol dire resistere, reinventarsi, lasciare un segno. Ecco la grande storia della classe sportiva del 1985
Capitolo 1, Cristiano Ronaldo
Capitolo 2, Michael Phelps
Capitolo 3, Lewis Hamilton
Capitolo 4, Tania Cagnotto
Capitolo 5, Allyson Felix
Tokyo, Giappone, agosto 2021. Le tribune sono quasi vuote, la pandemia ancora si fa sentire. Le telecamere, invece, sono sparse in ogni angolo dello stadio di atletica. Allyson Felix entra nella call room facendo un grande respiro. Ha quasi 36 anni, alle spalle vent’anni di finali tra Olimpiadi e Mondiali. È riuscita a tornare in forma per gli ultimi Giochi della sua vita, dopo una gravidanza complicata. In pista per l’ultima finale individuale della carriera non è la favorita: contro le specialiste dei 400 metri il suo margine si misura nei dettagli. Un’uscita dai blocchi pulita, una curva senza strappi e poi tenere fino alla fine. Lei che nasce velocista pura e che poi, nel corso degli anni, è passata a fare il giro di pista. “Fight. Dig,”, dirà. Lotta e scava dentro di te per tirare fuori quello che hai.
La gara esce esattamente come Allyson l’aveva disegnata nella sua mente: partenza controllata, tiene il ritmo, non si scompone quando le più giovani allungano intorno ai 300 metri. Sul traguardo è bronzo in 49"46. Davanti a lei solo la bahamense Miller-Uibo, 27 anni, e la panamense Paulino, 25. Per l’americana è la decima medaglia olimpica, curiosamente la prima di bronzo. Non andava così forte dal 2015, dal suo record personale.
Due giorni dopo Felix rientra in pista con McLaughlin, Muhammad, Mu per la staffetta 4×400. Qui le aspettative cambiano: gli Stati Uniti sono per definizione tra le favorite della vigilia, e con quel quartetto l’oro è più che probabile. Il tempo, 3:16.85, vale la medaglia più importante. Il conto personale sale a 11 medaglie olimpiche: nessuna donna, nell’atletica leggera, ha fatto meglio. Ma non solo. Ha superato, persino, una leggenda chiamata Carl Lewis. I numeri, nello sport, contano più di ogni cosa ma Allyson Felix, da sempre, ha fatto di più. È diventata un vero riferimento culturale dello sport femminile, protagonista di battaglie che, anche grazie al suo impegno, hanno cambiato visioni e regole.
Gli inizi
Los Angeles, periferia nord. In casa Felix il ritmo lo dettano due cose: la scuola e la chiesa. Il padre Paul è pastore battista, ministro della fede, con una formazione da filologo del greco antico e del Nuovo Testamento; la madre Marlean insegna alle elementari. Allyson cresce dentro questa routine ordinata: compiti, allenamenti, domeniche in comunità.
Comincia a gareggiare, e fare sul serio, in prima liceo. Alla Los Angeles Baptist High School la prendono in giro chiamandola “Chicken Legs”, per le gambe esili e lunghissime. Vince i primi titoli statali in California, soprattutto sui 100 e sui 200 metri, conquistandosi i primi scampoli, ancora molto di nicchia, di notorietà. Nel 2001, a quindici anni non ancora compiuti, arriva la prima conferma internazionale. Ai World Youth Championships di Debrecen, in Ungheria, corre i 100 metri in 11"57 e conquista la medaglia d’oro. È un passaggio veloce, ma decisivo perché le permette di passare da promessa locale a prospetto globale. Da lì in avanti, in California e negli Stati Uniti, il suo nome diventa sinonimo di futuro per la velocità a stelle e strisce.
C’è un altro episodio che Allyson ricorderà spesso come punto di svolta. Nel 2002, a Città del Messico, viene invitata a correre una gara contro atlete professioniste. È ancora al liceo, ma sorprende tutti e vince. “Ero l’unica studentessa, le altre erano donne già affermate. È stato il momento in cui ho capito che questo poteva davvero diventare il mio lavoro”, dirà più tardi.
Primavera 2003. Allyson ha diciassette anni, ma corre già nei meeting indoor. In estate arriva la prima decisione che le cambia la vita: saltare l’Ncaa. O meglio, si iscrive alla University of Southern California come studentessa di scienze della formazione primaria, ma sceglie di non gareggiare per il college come atleta. Firma con Adidas un contratto di sei anni. È la porta d’ingresso al circuito maggiore prima ancora di diventare maggiorenne. “È stata una decisione importante. Ci ho pensato molto e l’ho presa insieme alla mia famiglia. Era una buona opportunità che forse in seguito non si sarebbe più presentata”. I famosi treni, quelli super veloci, che (forse) poi non passano più. Una scelta controcorrente per l’epoca, con un obiettivo chiaro: arrivare pronta ai Giochi del 2004.
Atene
Il passaggio al professionismo per molti giovani atleti è un salto nel buio. Gli ostacoli sono mostruosamente più difficili da superare e la competizione non lascia spazio alle necessità di adattamento. Tentennare, è escluso. L’impatto non è semplice neanche per Felix. I mondiali del 2003, a Parigi, sono un mezzo disastro. Eliminata subito, prima delle semifinali. Tante, forse troppe, gare in calendario e un dosaggio delle forze non ottimale. La velocista studia un nuovo piano con Pat Connolly, campionessa e allenatrice di lungo corso. L’obiettivo è ottimizzare gli sforzi, cambiare passo e abituare il corpo al recupero dopo ogni grande sforzo.
In Grecia è tutta un’altra cosa. Allyson Felix è un oggetto curioso per gli addetti ai lavori. Il talento è innegabile ma le gare di primissimo livello prevedono sangue freddo, gestione dei ritmi e della tensione. Tutto quello che ha fatto fatica a controllare fino a quel momento. Ma la 18enne, stavolta, è pronta. Nei 200 metri è una scheggia. In finale parte benissimo. Prima della curva è davanti a tutte. Poi, all’uscita sul rettilineo, compare Veronica Campbell. La giamaicana, 21 anni, ha più esperienza sulle spalle, un pizzico maggiore di cattiveria e una voglia di vincere difficile da spegnere. Felix prova a prenderla, tutto inutile. Campbell chiuderà in 22"05, un gran cronometro. “È stata una gara fantastica. Veronica ha eseguito la curva molto bene. Quando ho iniziato il rettilineo finale, ho dato tutto quello che avevo”. Il suo è in ogni caso un argento incredibile. Il tempo di 22”18 è record mondiale juniores. Un primato che resisteva dal 1980. Allyson non è abituata a salire sul podio in una manifestazione così importante. Tanto che si dimentica di afferrare la bandiera americana e di fare il consueto giro di pista. Una prassi per chi vince una medaglia olimpica o mondiale. È il padre Paul, presente sugli spalti con tutta la famiglia, a spiegare il semplice motivo: “Non credo che si sia ancora resa conto di ciò che ha realizzato. Se l'avesse fatto, si sarebbe fatta un intero giro di gioia e sorrisi“.
Il dominio nei 200 metri
Un anno dopo Atene, Felix torna in Europa. Ai Mondiali di Helsinki, in Finlandia, corre i 200 come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non ha ancora vent’anni, ma è già la favorita. Vince in 22"16, battendo la connazionale Boone-Smith e la francese Christine Arron. È il suo primo titolo mondiale. Due anni dopo allo stadio Nagai di Osaka, in Giappone, concede il bis. In semifinale firma 22"11, in finale vola a 21"81, il suo personal best. È la seconda medaglia d’oro mondiale consecutiva. Domina talmente tanto che Veronica Campbell, stavolta seconda alle sue spalle, arriva con un ritardo di 53 centesimi di secondo. Un distacco così grande tra la prima e la seconda non si registrava dalle Olimpiadi di Londra del 1948. "Sono così emozionata. Ho aspettato così a lungo per correre un tempo simile, per correre sotto i 22 secondi. Non è stata una strada facile, ma finalmente ci sono riuscita”. Nei giorni successivi arriveranno altre due vittorie con le staffette americane che la porteranno a diventare la prima donna, dal 1983, a vincere tre medaglie d’oro nella stessa edizione dei campionati mondiali di atletica.
Alle Olimpiadi di Pechino le ambizioni sarebbero state tante ma, pochi mesi prima, Allyson Felix non riesce a qualificarsi ai Trials americani per disputare, oltre che i suoi amati 200 metri, anche i 100 metri, la gara regina delle Olimpiadi. Conclude le qualificazioni solo quinta, a Eugene, in 10”96. Sfuma così la possibilità di puntare alle 4 medaglie d’oro. “Sono decisamente delusa. Il motivo principale per cui ho corso i 100 metri era entrare nella squadra americana. Ma non posso abbattermi troppo”. Insomma, tutta la concentrazione passa, ancora una volta, nei 200 metri. Felix, del resto, arriva ai Giochi da campionessa del mondo in carica e con l’aspettativa di conquistare finalmente l’oro olimpico. C’è un problema, però. E si chiama ancora Veronica Campbell-Brown, doppio cognome dopo il matrimonio. La giamaicana corre in maniera pazzesca, facendo registrare il clamoroso tempo di 21"74, record personale. È il miglior crono dell’intero nuovo millennio. Felix chiude seconda in 21"93. Scende ancora sotto i 22 secondi ma è ancora argento olimpico. “È dura da accettare, ma ho dato tutto quello che avevo”. Il suo riscatto arriva nella 4x400. Le americane stravincono e per Allyson è il primo oro olimpico della carriera.
Il 2009, anno dispari, significa ancora mondiali. E Felix non tradisce facendo suo il terzo titolo consecutivo nei 200 metri. Il tempo è ancora ottimo, 22"02. Ma la soddisfazione più grande è tenere dietro Campbell-Brown e a Debbie Ferguson-McKenzie. Tre ori mondiali di fila sono la conferma definitiva della sua supremazia sulla distanza.
Due anni dopo, a Daegu, in Corea del Sud, gareggia anche nei 400 metri. Vuole ampliare il suo bagaglio tecnico, conquistare più medaglie, gareggiare di più. E la preparazione, forse, ne risente. Si chiude, infatti, la sua epoca d’oro nei 200 metri. Chiude addirittura terza, 22"42, dietro alla solita Veronica Campbell-Brown e Carmelita Jeter. Nei 400, però, sorprende: 49"59, argento, a tre centesimi dall’atleta del Botswana, Amantle Montsho (49"56).
Finalmente l'oro olimpico individuale
Felix arriva a Londra sapendo di non poter più sbagliare. Atene 2004 e Pechino 2008 sono state ricche di soddisfazioni ma alla sua carriera, che ormai sta arrivando alla piena maturità, serve un oro olimpico nei 200 metri. La consacrazione passa dal gradino più alto del podio a cinque cerchi. Le batterie e le semifinale scorrono senza intoppi ma anche senza acuti. In finale parte in corsia 7, un piazzamento che non aiuta: toglie punti di riferimento, soprattutto in una specialità in cui si deve correre in curva.
Allison sa che dovrà impostare la gara con aggressività. Andare forte e preoccuparsi poco di ciò che faranno le sue avversarie. Allo sparo reagisce bene. All’uscita della curva è già davanti a Fraser-Pryce e Veronica Campbell-Brown, le due giamaicane che rappresentano il pericolo più grande. L’ultima parte è la più rischiosa, i metri dove in passato aveva ceduto. Stavolta regge. Taglia il traguardo in 21"88, oro olimpico. “Questo è il momento che aspettavo da otto anni. Avevo bisogno di correre la gara perfetta. Sapevo di non avere altre possibilità”.
Quell’oro scioglie la tensione accumulata per anni. È il titolo che mancava nella distanza che l’aveva lanciata. Nei giorni successivi il bottino si allarga: oro anche nella 4×100 con il nuovo record del mondo in 40"82, e nella 4×400 con 3:16.87. Londra è il suo vertice, il punto più alto della sua carriera.
Mosca 2013
I Mondiali di Mosca avrebbero dovuto consolidare l’immagine di Allyson Felix come dominatrice dei 200 metri. Era campionessa olimpica in carica, tre volte campionessa del mondo. Ma la finale dura meno di un respiro. Dopo cinquanta metri si ferma di colpo, la mano alla coscia destra. Si sdraia in pista, il volto piegato in una smorfia. Strappo al bicipite femorale. Gara finita, stagione chiusa. Nove mesi di stop forzato.
L’immagine è insolita per lei, che in pista è sempre stata leggerezza e controllo. Lo stadio è ammutolito. È il fratello, ex sprinter e suo manager, a portarla fuori. “È stato devastante. Non ero pronta a fermarmi così, ma sapevo subito che la stagione era finita", dirà poi a NBC Sports. La caduta di Mosca diventa un punto di svolta. Dopo dieci anni di continuità, Felix capisce che dovrà cambiare il modo di allenarsi. Meno gare in calendario, più attenzione al recupero. La transizione dai 200 ai 400, già abbozzata, da quel momento diventa quasi inevitabile.
Pechino 2015
Due anni dopo, Felix si presenta a Pechino con un piano diverso: niente doppia distanza, meno rischi. L’obiettivo è solo uno: i 400 metri. Sui 200, del resto, non deve più dimostrare nulla a nessuno. In finale parte in corsia 6. A metà gara è già in vantaggio, la progressione è fluida. Negli ultimi 80 metri non cala, anzi tiene il ritmo alto fino al traguardo. Il tempo, 49"26, è la miglior prestazione mondiale dell’anno. È oro davanti a Shaunae Miller (49"67) e Shericka Jackson (49"99). È il suo primo titolo mondiale nel giro di pista. Grazie a questa vittoria diventa la prima donna al mondo a vincere i titoli mondiali sui 200 e 400 metri, anche se in edizioni differenti. “Ho trovato la mia gara. I 400 mi chiedono più disciplina e più pazienza, ma in questo momento sento che è quello che mi serve", dirà poi in conferenza stampa. “Ho voluto partire forte, sapevo che era la chiave. Non volevo lasciare spazio alle altre”.
Rio 2016
La notte del 15 agosto 2016, lo stadio Engenhão di Rio è illuminato a giorno. La finale dei 400 metri femminili è uno degli appuntamenti più attesi. In corsia ci sono giovani emergenti e veterane: tra loro anche Libania Grenot, italiana di origini cubane, campionessa europea in carica. Ma gli occhi sono su due atlete: Allyson Felix, già otto medaglie olimpiche in carriera, e la ventiduenne delle Bahamas Shaunae Miller-Uibo.
La gara parte regolare. Felix esce dalla prima curva in controllo, con il passo che conoscono bene tutti quelli che l’hanno vista correre per più di dieci anni. Ai 300 metri sembra avanti, pronta a difendere quel margine fino al traguardo. Ma negli ultimi metri accade qualcosa che resterà come una delle immagini più iconiche dell’atletica olimpica. Miller-Uibo, in affanno, capisce che non riuscirà a passare Felix in spinta. Allunga un ultimo passo e poi si lancia in tuffo sul traguardo. Il corpo si distende in avanti, cade sulla pista, ma il petto tocca il fotofinish prima di quello di Felix. Il tabellone lo conferma: 49"44 per Miller-Uibo, 49"51 per Felix. Questione di centesimi di secondo.
“Ho fatto quello che potevo. Non ho rimpianti, ma fa male”, dirà Felix a fine gara. L’immagine di lei che si gira incredula verso il tabellone racconta più delle parole: perdere così, dopo aver corso la gara quasi perfetta, è un colpo duro. La mossa divide i commentatori. Negli Stati Uniti molti parlano di gesto poco sportivo, altri lo definiscono un atto di coraggio, una scelta estrema ma legittima. L’IAAF conferma subito la validità: conta chi tocca per primo il fotofinish, non come. Per la cronaca, Libania Grenot chiude al settimo posto in 51"08, prima italiana in una finale olimpica dei 400.
Nei giorni successivi, Felix si rialza con la sicurezza di sempre. Con Madison, Gardner e Bowie vince la 4×100 in 41"01. Poi guida il quartetto della 4×400 - compoletato da Hayes, Hastings e Francis - all’oro in 3:19.06. Tre medaglie a Rio: due ori e un argento. Ma la cartolina che resta è il tuffo di Miller-Uibo. Un gesto disperato e geniale allo stesso tempo, che consegna all’atletica una delle immagini più discusse del decennio e lascia Felix con l’unico argento della sua Olimpiade brasiliana.
La gravidanza e la rottura con la Nike
Il 2018 è l’anno che cambia tutto. Allyson Felix annuncia la gravidanza, ma la gioia si trasforma in paura. A sette mesi viene ricoverata d’urgenza: preeclampsia, pressione altissima, rischio per lei e per la bambina. I medici decidono per un cesareo anticipato. La figlia Camryn nasce prematura, a 32 settimane, e resta a lungo in terapia intensiva neonatale. Felix ricorda i macchinari collegati al suo corpo minuscolo, gli allarmi che suonavano, le infermiere che correvano ogni volta. "Ricordo solo di aver pensato: non so se tornerò. Non so se ci riuscirò", dirà al Time. È una delle esperienze più difficili della sua vita. Ma Camryn, con la stessa forza della madre, riesce a superare quei giorni e a crescere sana.
Appena pochi mesi dopo, arriva un’altra prova. La trattativa per il rinnovo con Nike, sponsor storico, si trasforma in rottura. L’azienda propone un contratto ridotto del 70%, con tagli previsti anche durante il periodo di maternità. Felix chiede garanzie, non solo per sé ma per tutte le atlete madri. Non le ottiene. Nel maggio 2019 pubblica sul New York Times l’editoriale dal titolo 'My Own Nike Pregnancy Story', in cui scrive: "Ho chiesto a Nike di garantire contrattualmente che non sarei stata punita se non avessi reso al massimo nei mesi intorno al parto. Volevo stabilire un nuovo standard. Se io, una delle atlete Nike più pubblicizzate, non fossi riuscita a ottenerlo, chi ci sarebbe riuscito?".
L’articolo ha un effetto immediato. Il caso esplode, Nike viene accusata di incoerenza con le sue campagne pubblicitarie. In poche settimane l’azienda annuncia un cambio di policy: retribuzione e bonus garantiti per 18 mesi attorno alla maternità. Anche altre aziende, sotto la pressione dell’opinione pubblica, adottano tutele simili. Felix ha perso uno sponsor, ma ha aperto una breccia. L’attacco di quell’editoriale, a rileggerlo oggi, resta potentissimo: "Ho sempre saputo che parlare avrebbe potuto danneggiare la mia carriera. Ma non si può cambiare nulla con il silenzio".
Nel frattempo firma con Athleta, marchio femminile del gruppo Gap. Non è una semplice sponsorizzazione: Felix diventa portavoce della linea, protagonista di campagne dedicate al sostegno delle atlete madri. È un segnale di indipendenza, la scelta di costruire un percorso nuovo, anche in prospettiva di una carriera oltre la pista.
La sua storia personale diventa anche politica. Felix racconta davanti al Congresso statunitense la sua esperienza con la preeclampsia e denuncia le disparità sanitarie che colpiscono le donne nere, con un tasso di mortalità molto più alto rispetto alle donne bianche. "Ho quasi perso la vita, e so che non sono sola. Per troppe donne nere in America questa è la realtà", dirà. Uno studio del CDC nel 2019 rilevava che una donna nera, con almeno una laurea, aveva 5,2 volte più probabilità di morire durante la gravidanza o il parto rispetto a una donna bianca con lo stesso livello di istruzione. Felix lo ricorda al Congresso: "Dobbiamo offrire alle donne di colore maggiore supporto durante le loro gravidanze. I pregiudizi razziali nel nostro sistema sanitario portano a sottovalutare il dolore, ignorare i sintomi, respingere le richieste".
Intanto il ritorno in pista è lento, pieno di incognite. Si allena spesso da sola, con la figlia sugli spalti, lontana dai centri federali. Dorme poco, come tutte le madri di bambini piccoli, ma non smette di crederci. Con il coach Bob Kersee calibra allenamenti e gare, senza forzare. Ogni meeting è un test, ogni ripetuta serve a capire se il corpo può ancora reggere. L’obiettivo, mai nascosto, resta lo stesso: arrivare pronta alle Olimpiadi di Tokyo.
La nuova carriera da imprenditrice
Dopo la rottura con Nike, Allyson Felix non resta senza appoggi. Nel luglio 2019 firma con Athleta, marchio femminile del gruppo Gap. È la prima atleta mai sponsorizzata dal brand, e non è un dettaglio. Athleta non compra solo l’immagine di una campionessa: costruisce intorno a lei una partnership che parla di maternità, di comunità, di un modello diverso di sport al femminile. "Mi sostengono non solo come atleta, ma anche come madre e come attivista. Questo è quello che cercavo", dirà Felix a People.
Il nuovo contratto segna uno stacco netto. Non più clausole legate esclusivamente a medaglie e piazzamenti, ma un accordo che tiene conto della persona dietro la velocista. Athleta la inserisce nelle proprie campagne pubblicitarie (“Power of She”), la affianca in progetti con altre donne, porta la sua voce fuori dallo stadio.
Ma Felix non si ferma lì. Due anni dopo, alla vigilia dei Giochi di Tokyo rinviati dalla pandemia, annuncia la nascita di Saysh, il suo brand di calzature e lifestyle. Non un semplice sponsor, ma una società fondata insieme al fratello Wes, pensata by women, for women con un claim chiarissimo: “Women deserve better”. Il primo modello, la Saysh One, è una sneaker con linee pulite e un design che tiene conto della forma del piede femminile. "Volevo scarpe che raccontassero la mia esperienza, non banali adattamenti di modelli maschili già esistenti", spiega a Time.
Il debutto è simbolico: ai Trials olimpici del 2021 e poi a Tokyo corre con chiodi marchiati Saysh. È una dichiarazione d’indipendenza, quasi una rivincita contro il mondo degli sponsor che l’aveva ridimensionata dopo la maternità. Non più atleta sotto contratto, ma imprenditrice che porta in pista il proprio marchio. Athleta resta al suo fianco, distribuendo le Saysh One nei propri store e online. La storia diventa circolare: da sponsor a partner commerciale, fino a rivenditore delle scarpe di Felix. È il segno di una trasformazione che non riguarda solo la sua carriera, ma anche un mercato che per anni aveva relegato le donne a un ruolo marginale.
Tokyo 2021
Tokyo è una festa. Lo abbiamo detto all’inizio di questo racconto. Allyson Felix sale sul podio due volte. Un bronzo individuale, nei 400, e un’oro con la staffetta, nella stessa distanza. Il bottino finale parla di 11 medaglie olimpiche. Ma queste ultime due hanno un sapore diverso: sono frutto delle battaglie di Felix dentro e fuori una pista di atletica, con le sue scarpe, pensate e prodotte per una velocista donna, ai piedi. Con un contratto ritagliato sul suo essere donna, mamma e lavoratrice. Tagliare quel traguardo significa aver ottenuto degli enormi passi in avanti per tutta la comunità afroamericana. È una soddisfazione immensa. Gli spalti sono praticamente vuoti, la pandemia ha preso il sopravvento. Ma in molte case, in tutto il mondo, le persone hanno applaudito l’impresa, lunga vent’anni, di Allyson Felix. Eccellere nello sport e, insieme, migliorare la vita a tantissime altre donne.
Nel 2022 annuncia il ritiro. Chiude con i Mondiali di Eugene, negli Stati Uniti, correndo ancora una volta in staffetta. “È arrivato il momento di dedicarmi ad altro, di essere presente per mia figlia e di far crescere quello che ho costruito fuori dalla pista”. Non è un addio malinconico. Felix entra in una nuova fase: l’imprenditrice di Saysh, la testimonial di Athleta, la voce dentro le istituzioni sportive. Nel 2021 era stata eletta nella Commissione Atleti del CIO, ruolo che la porta a occuparsi di governance e diritti degli atleti. Oggi Felix è un punto di riferimento oltre la pista. Continua a guidare Saysh, partecipa a campagne per l’equità di genere nello sport, testimonia contro le disparità sanitarie che colpiscono le donne nere negli Stati Uniti, segue da vicino la crescita di giovani atlete americane nel loro percorso verso la gloria mondiale e olimpica.
Nel 2024 Glamour la premia come ‘donna dell’anno’. Non corre più da un po’ ma la sua corsa non si è mai arrestata: “L’atletica è stata la mia voce quando ero troppo timida per parlare. Ora ho una voce mia”. Una voce fortissima, più forte delle medaglie.
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