Quella sinistra che ha paura di sfidare il pensiero finto pacifista

  • Postato il 15 aprile 2025
  • Di Il Foglio
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Quella sinistra che ha paura di sfidare il pensiero finto pacifista

Al direttore - In questo momento storico, segnato da controversie sia sul piano interno quanto sul piano internazionale, mi colpisce l’assordante silenzio della sinistra italiana. Il silenzio di una sinistra che non combatte, che non sogna e, soprattutto, che non disturba, sembra aver rinunciato a se stessa: priva di voce, priva di slancio, priva soprattutto di posizioni. Pare basti dirsi “anti governo” per legittimarsi, senza però costruire una visione alternativa, senza farsi carico di quelle istanze che storicamente e non, le appartengono. Forse non è più sinistra, forse non fa più l’opposizione, forse è solo una voce bassa e stanca che aspetta. Che aspetta?
Jacopo Guolo

“Putin ha di nuovo ucciso civili innocenti. Questa volta, nella città di Sumy. La sua crudeltà ci indigna. Ci rattrista. Ma ci unisce anche. La Spagna e l’Unione europea non smetteranno di sostenere l’Ucraina finché non otterrà la pace giusta e duratura che tanto merita”. Pedro Sánchez, 13 aprile 2025. Essere di sinistra, oggi, di fronte ai fascisti, non dovrebbe essere così difficile, a meno di non aver paura di dover sfidare l’ombra tetra del pensiero unico finto pacifista. 

   

    

Al direttore - Stando ai giornali, Giorgia Meloni sarebbe pronta a rinunciare al Veneto per non irritare l’irrequieto Salvini. Nelle puntate precedenti, si ricorderà, i proconsoli del Capitano erano arrivati addirittura a minacciare il sabotaggio della coalizione se il dopo Zaia non avesse recato il timbro della continuità leghista. La premier, sempre stando ai giornali, si rifarebbe in Lombardia nel 2028 (campa cavallo!). Storie di ordinaria trattativa politica, si dirà. Ed è vero. Tuttavia, unendo i puntini del risiko in corso in Veneto con quelli sospesi sull’autonomia differenziata, il disegno che ne viene fuori somiglia molto alla vecchia Padania vagheggiata da Bossi. Conservare la guida del Veneto, avendo già quella della Lombardia e del Friuli Venezia-Giulia significa infatti disporre delle premesse territoriali per realizzare la Macro-regione settentrionale, che andrebbero ad aggiungersi a quelle giuridico-costituzionali concesse a suo tempo dalla sinistra con la riforma del Titolo V che al penultimo comma dell’art. 117 testualmente recita: “La legge regionale ratifica le intese della regione con altre regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”. Tradotto, significa che già oggi, a Costituzione vigente, nulla vieta alle regioni di dotarsi di un’assemblea legislativa tutta loro (il Parlamento del nord, ad esempio), con lo stato ridotto a mero spettatore. Insomma, l’avvio di questa dinamica para-secessionista è solo questione di volontà politica. Finora repressa per non disturbare la strategia “nazionalista” racchiusa nella formula “Salvini premier”, ma pronta a riesplodere ora che il sogno di un leghista a Palazzo Chigi è derubricato a miraggio. Messa dunque così, la presidenza del Veneto è molto molto di più di una semplice pedina sulla scacchiera della trattativa sulle regioni al voto nel prossimo autunno: è, per la Lega, il presupposto irrinunciabile del “piano B” con cui puntare all’obiettivo della liquidazione dello stato unitario qualora la legge sull’autonomia differenziata s’impantanasse definitivamente. Ce n’è abbastanza, come si vede, perché la premier faccia bene i suoi calcoli, evitando di fornire il proprio contributo politico alla secessione mascherata del nord. 
Mario Landolfi 

Ragionamento sofisticato ma mi sembra che in Veneto la partita sia più complicata: senza un leghista candidato, un pezzo del centrodestra, non piccolo, potrebbe votare un candidato alternativo al centrodestra. Un caro saluto.
 

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Autore
Il Foglio

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