Quel preciso momento: ecco cosa è successo nell’arte tra fine degli Anni Novanta e primi Anni Zero
- Postato il 5 novembre 2025
- Arti Visive
- Di Artribune
- 1 Visualizzazioni

Verso la conclusione del pezzo sul cinquantenario della morte di Pier Paolo Pasolini, a un certo punto ho fatto questa rapidissima carrellata che copre quasi cinquant’anni: “ci troviamo molto probabilmente di fronte alla terza mutazione antropologica, dopo la prima individuata e riconosciuta da lui [PPP]: i ragazzi con i capelli lunghi e unti contro cui si scagliava al centro di Petrolio hanno infatti adesso ormai settant’anni, e hanno a loro volta dei nipoti. Ad ognuno di questi scarti è corrisposto un piano nuovo di esistenza, di realtà (postmodernismo-neoliberismo, reaganismo-thatcherismo-craxismo, e poi fine della storia, blairismo, berlusconismo, war on terror, nuovo ordine mondiale, crisi finanziaria, obamismo, trumpismo, neo-bellicismo, ecc. ecc.) che ha stressato ciò che rimaneva del sistema di pensiero e di valori costruito nel secondo dopoguerra, per proiettarci in una Terra di Nessuno (il XXI secolo pieno: dato che, a quanto pare, il XX non è stato affatto ‘breve’ come voleva Hobsbawm ma si è allungato parecchio all’interno del successivo…) di cui ancora dobbiamo riconoscere contorni, confini, conformazione e caratteristiche.”
Ma il secolo è veramente breve?
Mentre il presente, la Terra di Nessuno, rimane – e rimarrà – ancora largamente inconoscibile, indefinibile, intraducibile e irrappresentabile, possiamo soffermarci su quel “a quanto pare, il XX Secolo non è stato affatto ‘breve’ come voleva Hobsbawm ma si è allungato parecchio all’interno del successivo…”. Ovviamente, non vuol dire che Hobsbawm si fosse sbagliato, ci mancherebbe: vuol dire invece che il passaggio, la transizione, la sostituzione da un secolo all’altro non sono stati per niente immediati come forse si pensava allora, un po’ troppo frettolosamente.

In questo interregno lungo una ventina d’anni, alcune caratteristiche culturali e strutturali del Novecento si sono perpetuate e si sono inoculate all’interno del secolo nuovo, ritardando l’elaborazione della qualità di questo ‘nuovo’: ritardando cioè la maturazione della reale differenza, di una concreta alterità. Forse, come non capita spesso, il territorio dell’arte contemporanea costituisce un osservatorio privilegiato per considerare questo fenomeno.
L’arte contemporanea nel XX Secolo
Se pensiamo infatti all’evoluzione generale, prima occidentale e poi globale, dei linguaggi artistici, ci accorgiamo che per tutto quel momento – gli Anni Novanta fino all’inizio o alla metà degli Anni Dieci -, il ‘contemporaneo’ rimane grossomodo attestato su standard condivisi di sperimentazione/ricerca che a loro volta ribadivano e riflettevano nostalgicamente l’esplosività eroica degli Anni Sessanta-Settanta: ciò voleva dire dunque post-concettualismo in ambito anglosassone e internazionale (post-poverismo invece nel contesto italiano), molto video, installazione, performance, ecc. Questa costante linguistica, per così dire, si appoggiava ad una fase individualista, in gran parte inedita, in cui gli artisti emergevano sulla scena prima nazionale e poi mondiale come figure singole e non più come leader o membri di gruppi e movimenti (e dunque anche la parte ‘teorica’ legata all’arte si eclissava…).
Arte e globalizzazione
Questo tipo di linguaggi ha costituito dunque per un ventennio abbondante, prima ancora che un’estetica, una postura, un approccio che a sua volta definiva immediatamente il senso del “contemporaneo” ad ogni latitudine, e la riconoscibilità di una mostra di “arte contemporanea” anche per l’outsider più impenitente.
Negli ultimi dieci-quindici anni la situazione è cambiata sensibilmente, come ognuno di noi può verificare in base alla propria esperienza diretta di spettatore: quei linguaggi originariamente di ricerca, poi via via divenuti sempre più di maniera, non sono scomparsi ma si sono sciolti e diluiti insieme ad altri approcci, altri stili, altre modalità e quindi anche altre posture, che non necessariamente portano avanti l’agenda dell’arte legata strettamente alla globalizzazione: in primis il ritorno potente della pittura, che non se ne era mai peraltro veramente andata da nessuna parte; il ritorno connesso di una componente fortemente manuale/artigianale, legata spesso a rivendicazioni identitarie; l’affermazione di un ‘artivismo’ (terribile definizione) più o meno autocosciente, le cui apparenze si sono di volta in volta associate all’estetica ‘della protesta’, alla riproposizione in chiave nostalgica di codici storici, oppure alla negazione dell’opera in quanto tale, alla fuoriuscita dell’opera da se stessa; quest’ultimo aspetto – forse il più interessante – si è a sua volta e a volte connesso all’evoluzione e alle declinazioni dell’arte relazionale, nata sempre negli Anni Novanta e sempre da spoglie Anni Settanta, ancora oggi in perfetta salute.
Adesso assistiamo a fenomeni che una volta sarebbero sembrati strani o eterodossi, e che non lo sono o non lo sembrano più: forme (una volta considerate) iper-conservatrici che veicolano temi e messaggi progressivi; forme (una volta considerate) progressive che si sono invece votate completamente a una dimensione decorativa, compiaciuta di sé e autoconclusa; e così via.
Gli Anni Novanta dell’arte, musica e sottoculture
Se ritorniamo invece a quel momento, ci accorgiamo che le premesse di una precisa fase storica coincidente con la seconda metà degli Anni Novanta sono state forse progressivamente disattese dal successivo quarto di secolo. E ce ne accorgiamo soprattutto se guardiamo in controluce anche altri ambiti creativi e culturali vicini all’arte visiva, come per esempio la musica.
Dopo, infatti, l’esaurimento delle (ultime) sottoculture come grunge, techno, shoegaze, brit pop, quel periodo rappresenta la breve ed intensa fase in cui ci si può dedicare – date le condizioni e il contesto, particolarmente favorevoli – a una sorta di sperimentazione di massa. Basta pensare a ciò che realizzano gli Smashing Pumpkins (Mellon Collie and the Infinite Sadness, 1995; Adore, 1998; lo sfortunato dittico Machina, 2000), i Radiohead (The Bends, 1995; OK Computer, 1997; Kid A, 2000; Amnesiac, 2001), Björk (Debut, 1993; Post, 1995; Homogenic, 1997; Vespertine, 2001), David Bowie (1. Outside, 1995; Earthling, 1997) e i Nine Inch Nails (Broken, 1992; The Downward Spiral, 1994; The Fragile, 1999); alla nascita del post-rock, con i Cure di Disintegration (1989) e Wish (1992), ma soprattutto con i Talk Talk (The Colour of Spring, 1986; Spirit of Eden, 1988; Laughing Stock, 1991), e con i successivi sviluppi ad opera di band come Sigur Ròs, Mogwai, Godspeed You Black Emperor! e Tortoise. Senza tralasciare ovviamente l’elettronica innovativa di musicisti come Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada, e il parallelo nu metal di Deftones, Korn, Rage Against the Machine, Limp Bizkit, Slipknot, ecc.
La musica negli Anni Novanta
Perfino gruppi decisamente più mainstream si dedicano a esperimenti interessanti e destinati a esercitare profonda influenza negli anni e nei decenni successivi: per esempio Zooropa (1993) e Original Soundtracks 1 (1995) degli U2, o Songs of Faith and Devotion (1993) e Ultra (1997) dei Depeche Mode, Blur (1997) e 13 (1999) dei Blur, Tiny Music… Songs from the Vatican Gift Shop (1996) e No. 4 degli Stone Temple Pilots – ma se ne potrebbero citare parecchi altri.
Questo periodo che si chiude abbastanza presto, compreso tra la metà dei Novanta e l’inizio del decennio successivo, rappresenta un’apertura straordinaria e forse irripetibile di orizzonti e possibilità creative, una moltiplicazione di combinazioni e di connessioni a cui guardare ancora oggi con interesse e curiosità.
Christian Caliandro
Libri consigliati:
(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)
L’articolo "Quel preciso momento: ecco cosa è successo nell’arte tra fine degli Anni Novanta e primi Anni Zero " è apparso per la prima volta su Artribune®.