Quel Paese che vuol condannare i dodicenni

  • Postato il 3 giugno 2025
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Quel Paese che vuol condannare i dodicenni

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Vietare, allertare, punire. Sono le coordinate della strategia di contrasto alla violenza contro le donne, nella visione di Giulia Bongiorno. Sono la pervicace deriva di un fallimento, politico, culturale e psicologico, che ha prodotto effetti opposti a quelli voluti e dichiarati, e che si fa fatica a riconoscere, e a mettere in discussione. A destra, come a sinistra, purtroppo.

Ma di tutte le cecità che la classe dirigente del Paese mostra sulla violenza di genere, quella esposta dalla senatrice leghista in un’intervista al Corriere della Sera è certamente la più radicale. Poiché crede di poter contrastare la violenza attraverso la triade di proibizioni, allarmi e sanzioni, il cui effetto è quello sterilizzare le relazioni tra gli adolescenti a rischio, accentuando il loro analfabetismo affettivo e il senso di solitudine che li pervade.


Giulia Bongiorno si propone anzitutto di imporre limiti stretti all’uso degli smartphone da parte dei minori, intendendo in tal modo ingaggiare una lotta di retroguardia contro il processo tecnologico, che nella migliore delle ipotesi si rivelerà un buco nell’acqua, e nella peggiore svilupperà la clandestinità ancora più opaca che da sempre i proibizionismi hanno prodotto nella storia.

Perché pensare di interdire il virtuale ai figli del virtuale è una forma di luddismo inconsapevole e vana. Ricorda la preoccupazione del vecchio Jorge, il bibliotecario de «Il nome della rosa» di Umberto Eco, di nascondere ai monaci il libro sulla commedia di Aristotele per il timore che la conoscenza dell’ironia potesse corromperli.


Ma la Bongiorno vuole altresì allertare le ragazze «con vademecum per far capire loro a cosa devono stare attente: alla gelosia, all’ipercontrollo, ai divieti del partner, alla voce alzata, al famoso ultimo appuntamento». Questa grottesca educazione all’allarme, molto diffusa nel dibattito pubblico, si propone di prevenire un femminicidio in base alla credenza che esistano comportamenti sintomatici in grado di segnalare in anticipo la tendenza di un soggetto a trasformarsi in un killer feroce. E che questi comportamenti possano essere individuati alla prima comparsa e far scattare attorno alla persona che li esprime una cornice di allarme e di isolamento, per impedire che la sua potenzialità aggressiva si traduca in violenza.

Si fa interprete di una simile visione anche il ministro della giustizia, Carlo Nordio, che qualche tempo fa annunciò la diffusione di un opuscolo da diffondere a scuola, nei posti di lavoro e sui social per segnalare i cosiddetti «atteggiamenti spia, sintomi di un possibile aggravamento di violenza». E, volendo approfondire, chiarì che «ciò che ieri poteva sembrare galanteria, insistenza, messaggi social oggi può essere invece l’indizio di una futura violenza».


Purtroppo una semplificazione rozza di sta impossessando del sentire comune e non risparmia neanche la classe dirigente. In tv si avvicendano testimonial che insegnano a riconoscere il bruto da un campionario sconfinato di forme della gelosia. E la voce dei pochi veri esperti, che pure avrebbero titolo a parlare sulla vicenda, finisce coperta dal rumore di fondo dell’emergenzialismo.
Il rimedio di allenare le donne e la società a isolare i cosiddetti comportamenti normopatici è illusorio e controproducente. Anzitutto perché – come riconoscerebbe qualunque psicanalista – ci sono parti nascoste, a volte dissociate, che a un occhio allenato o attento sono più riconoscibili, ma che in alcuni casi non lasciano prevedere, anche da un punto di vista clinico, la possibilità di azioni estreme.

Vuol dire che lo psicologo che aveva in terapia il mostro di Foligno non era un incompetente, ma semplicemente che non tutte le parti normopatiche di un individuo sono visibili e non sempre la loro evoluzione è prevedibile. Una cultura dell’allarme diffuso non farebbe che rendere le relazioni tra i sessi più problematiche di quanto già non denunci la regressione della sessualità certificata dalle migliori indagini sul campo, trasformando l’analfabetismo affettivo del nostro tempo in una giungla del sospetto e facendo più pericolosi i cosiddetti soggetti rischio. Ma se questa soluzione spiccia si fa strada, è perché risponde alla tentazione di rimuovere il male dal nostro mondo per confinarlo in un’alterità invisibile, che sia quella del potenziale bruto e del carcere a vita, dove vorremmo gettarlo per non vederlo mai più.


Questa ricetta non funziona. Non è l’esclusione o una relazione vissuta in allarme sistematico che possono scongiurare il femminicidio, ma il loro contrario. L’unica prevenzione possibile è l’educazione sentimentale. Educazione a stare insieme, a litigare, a lasciarsi, a sostenere il rifiuto dell’altro. Si può imparare a scuola. Ma non con un manuale di sopravvivenza sessuale delle giovani marmotte, come quello annunciato dal guardasigilli. E non con una spruzzatina di euro per qualche corso pomeridiano con lo psicologo, a cui finiscono per partecipare soprattutto coloro che ne hanno meno bisogno. Bisogna introdurre la conoscenza di se stessi e della capacità di relazione nelle discipline curricolari, dalla scuola materna al liceo.

E bisogna lasciare ai terapeuti il compito di individuare, quando si può, le tracce di una fragilità emotiva o di una nevrosi dietro le quali si nasconde una psicosi più profonda, quella che, di fronte a un rifiuto o a una frustrazione, fa scattare l’incubo della disintegrazione dell’io e, come reazione, la violenza distruttiva.
L’Italia negli ultimi vent’anni ha cambiato i suoi costumi con una velocità sorprendente, che ha messo in crisi i ruoli e le relazioni di genere. Immaginare di governare questi processi con una cultura dell’allarme vuol dire indebolire le connessioni civili di cui invece c’è più bisogno. Purtroppo ci sono molti segnali che questo stia accadendo.


Da ultimo Giulia Bongiorno vuole punire di più e prima. Perciò plaude al reato di femminicidio, sanzionato con l’ergastolo, e propone di abbassare la soglia di imputabilità, oggi fissata a quattordici anni, per portarla a dodici. Poiché – dice – i ragazzi crescono più velocemente di un tempo. Confonde l’abilità, cioè la capacità di compiere azioni un tempo riservate agli adulti, con la coscienza, cioè la capacità di assumere la responsabilità di ciò che si fa e degli effetti che si producono, la sola che può avere, sul piano del diritto penale, una qualche rilevanza. In che misura la responsabilità di un dodicenne può ascriversi alla sua coscienza e non anche e soprattutto alla sua appartenenza familiare e sociale, alle sue chance di vita, all’offerta educativa ricevuta, ai condizionamenti dell’ambiente?


La variegata geografia sociale di un Paese duale come l’Italia è puntellata di buchi neri, disperate periferie dello sviluppo e dello spirito. Il fatto di nascervi dentro può diventare la condizione di una punizione aggiuntiva, oltre a quella inflitta da una casualità maledetta del destino?
Si aggiunga che non c’è, al momento in Italia, una casistica significativa di reati di una certa gravità commessi da minori di quattordici anni. A quale obiettivo di politica criminale risponderebbe un abbassamento della soglia di punibilità? A un’improbabile deterrenza, per cui il dodicenne o il tredicenne deviante, avendo studiato la novella legislativa, sarebbe indotto a imboccare la retta via per sfuggire alla pena? O a un’impossibile rieducazione, visto lo stato delle carceri nella nostra democrazia e il loro essere scuole di crimine e di recidiva?


No, la sortita di Giulia Bongiorno, che commentando l’omicidio di un diciannovenne propone di processare i dodicenni, risponde a un mero obiettivo mediatico: innaffiare la pubblica piazza con la benzina infiammabile del “cattivismo”, per strappare qualche facile consenso. Se questo marketing della brutalità uscisse dalla bocca di uno dei populisti che hanno in questi anni assediato e poi assaltato il palazzo, ci sarebbe da esprimere commiserazione.

Ma poiché invece viene dalla talentuosa giurista che difese Andreotti dalla ferocia del teorema giustizialista, quel proposito non fa solo pena. Fa anche rabbia, e sgomento. Perché racconta a che cosa si è ridotto il dibattito pubblico in questo sciagurato Paese.

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