Quel che resta del pesce: ecco perché il Mediterraneo è diventato un deserto

  • Postato il 6 luglio 2025
  • Di Panorama
  • 1 Visualizzazioni

Dal Sud al Nord, dalle città di mare a quelle dell’entroterra, dai supermercati alle pescherie il fenomeno si ripete sempre uguale: addio (o quasi) al caro vecchio branzino pescato. O alla cernia, all’orata e via elencando. Già: il pesce in vendita è pressoché totalmente allevato e quello selvatico è sempre più difficile da reperire. I numeri sul sovrasfruttamento sono chiari. Secondo la Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione, a fronte di una crescita della popolazione mondiale di circa 75 milioni di persone all’anno, si è passati dalla cattura annuale di 20 milioni di tonnellate di pesce del 1950 a circa 120 milioni alla fine degli anni Ottanta per poi diminuire fino ai 92,3 milioni del 2022. Fatto non meno importante, parallelamente all’intensificarsi della pesca grazie a metodi e tecnologie sempre più moderne, la curva che descrive questo fenomeno è scesa quasi 50 anni fa, segno che abbiamo superato da tempo il massimo dell’utilizzo delle risorse.

La situazione nel Mediterraneo, il più “pescato” dei mari, è ancora più tragica. Qui lo stock ittico sovra-pescato raggiunge il 91 per cento in acque dell’Unione europea con una presenza di pescherecci che è oltre il doppio del limite della pesca sostenibile. In questo caso, le catture hanno raggiunto il picco già negli anni Novanta, e sono passate da oltre due milioni di tonnellate negli anni Ottanta a circa 0,79 milioni di nel 2013 e 1,1 milioni nel 2021. Di contro, la produzione in acquacoltura è cresciuta moltissimo. Su scala mondiale, la maggior parte di questa crescita si deve alle regioni dell’Asia orientale e del Pacifico, con la Cina che spicca su tutti gli altri Paesi. L’allevamento di pesce, molluschi, crostacei e alghe è passato dai circa 40 milioni di tonnellate del 1960 fino ai circa 210 milioni di tonnellate del 2022. Ferdinando Boero, esperto di sostenibilità degli ecosistemi marini, riassume così queste tendenze: «Si potrebbe dire che da pescatori siamo diventati allevatori di pesce proprio come nella rivoluzione neolitica da cacciatori-raccoglitori eravamo diventati agricoltori e allevatori. Ma c’è una differenza cruciale: oggi alleviamo spigole, branzini, cernie e molti altre specie nutrendole di farina di altri pesci di valore commerciale inferiore. Per continuare il paragone, è come se allevassimo leoni nutrendoli di carne meno pregiata di altri mammiferi.

Bene, questo non è un processo ecologicamente sostenibile. Sono stati fatti diversi tentativi di usare farine vegetali, per esempio di soia, ma senza grandi successi». Per farsi un’idea della situazione basti pensare che per produrre un chilo di tonno da acquacoltura servirebbero all’incirca 15 chili di mangime a base di pesce. Guardiamo ora nel dettaglio al declino delle singole specie. Un nuovo studio pubblicato su Pnas mostra che l’impatto delle tonnare nel corso di centinaia di anni, prima ancora dell’emergere della pesca industriale, ha lasciato un’impronta di erosione genetica e demografica sul tonno rosso. «Facendo il paragone con la specie umana, è come se fosse rimasta sul pianeta solo l’etnia caucasica», spiega Roberto Danovaro, che insegna biologia marina presso l’Università Politecnica delle Marche. «Ciò significa che il tonno, avendo perso diversità genetica, potrebbe avere più difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti ambientali futuri». Il riccio di mare è un altro esempio di specie nota nella ristorazione mediterranea che è ormai avviata al collasso ecologico. A questo riguardo è un recente studio internazionale su Nature – Scientific Reports a lanciare l’allarme sottolineando che le attuali misure di conservazione non bastano, tanto che non sono emerse differenze significative tra aree marine protette e non protette. «Siamo passati da 10 a 0,2 ricci a metro quadro nelle zone costiere, valori veramente preoccupanti. In questo caso, ciò che è successo è che al sovrasfruttamento dell’uomo si è aggiunto il danno del riscaldamento anomalo del Mediterraneo» aggiunge Danovaro. «Per altre specie si parla non solo di drastico calo delle popolazioni ma anche di dimensioni notevolmente diminuite.

Fino a vent’anni fa si pescavano orate e branzini di due o tre chili, adesso sono massimo di mezzo chilo, quando si riescono a trovare. Lo stesso vale per le cernie, che i Romani pescavano a mano buttandosi dalle rocce in mare armati di lancia, talmente erano abbondanti. E il pesce spada? Non solo gli individui sono del 40 per cento più piccoli rispetto a cinquant’anni fa, ma l’intera popolazione è del 30-40 per cento inferiore a quella che sarebbe necessaria per mantenere l’equilibrio ecologico della specie». Nel caso delle cernie di profondità, in sette stati europei, negli anni Novanta, le popolazioni sono crollate di circa l’88 per cento; e per quelle che vengono catturate con le reti il crollo è stato del 60 per cento in trent’anni. La Lista Rossa Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura), il più completo inventario dello stato di salute delle specie a livello globale, considera addirittura come specie a rischio estinzione anche l’anguilla, la cernia, l’ombrina boccadoro, il palombo e il rombo chiodato. Ora, se uno si chiedesse come affrontare il problema, dovrebbe prima di tutto prendere atto del fatto che, già nel 2017, con la direttiva Descriptors under the Marine strategy framework la Commissione europea aveva suggerito i criteri e gli standard metodologici ai quali gli Stati membri dovrebbero attenersi per salvaguardare la salute delle specie pescate.

Queste raccomandazioni della Commissione non hanno finora dato i risultati voluti per diverse ragioni. Prima di tutto, gli Stati non riescono a far rispettare le leggi che recepiscono le direttive europee: secondo il Wwf, tra il 14 e il 33 per cento del pesce pescato è di provenienza illegale. C’è poi da aggiungere che non sempre le leggi rispettano lo spirito dei suggerimenti offerti da scienziati e policy makers. Per esempio, la direttiva europea sottolinea come la pesca a strascico sia una delle pratiche di pesca più distruttive al mondo. Le pesanti reti dotate di catene e rulli che vengono trascinate nei fondali provocano danni irreversibili. Con una sola passata di pesca a strascico vengono rimossi dal 50 al 90 per cento degli organismi del fondale marino e fino all’80 per cento delle strutture coralline. Così le aree ripetutamente sfruttate diventano paesaggi marini omogeneizzati, simili a deserti, con una perdita enorme di biodiversità. Si resta allibiti nel vedere che la delibera «Approvazione del Piano del mare per il triennio 2023-25», pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 23 ottobre 2023, paragona i fondali marini a «campi coltivati», con l’idea che possano essere arati con le reti a strascico. Dice la delibera: «C’è piena consapevolezza degli impatti dello strascico sui fondali, rispetto a quella che era la biodiversità prima dell’impatto antropico, ma oggi tali fondali marini, soggetti e adattati a costanti perturbazioni da molti decenni, potrebbero essere considerati, con una forte esemplificazione, come “campi coltivati” in cui svolgono il loro ciclo vitale una serie di specie adattate alle condizione perturbate».

E infine, sono le strategie politiche a non funzionare, come ben spiega Boero: «Oggi l’Unione europea persegue una politica di sussidi ai pescatori. Siccome i ricavi della pesca sarebbero inferiori ai costi, allora gli Stati li finanziano. La conseguenza? Ci sono più pescherecci in mare di quelli che sarebbero necessari e gli stock ittici sono sovrasfruttati. Paradossalmente, sarebbe più vantaggioso elargire quei finanziamenti ai pescatori come sussidio di disoccupazione con l’accordo che non peschino più. La minore pressione sugli ecosistemi marini favorirebbe il loro recupero». Insomma, le responsabilità sono a ogni livello. Anche nostre. La classica fruttura di pesce che ci piace così tanto è quasi sempre pescata a strascico. Non un invito a fare rinunce, ma alla consapevolezza sì.

Autore
Panorama

Potrebbero anche piacerti