Quarant'anni di Terminator, nato in una pensione romana a buon mercato

  • Postato il 5 ottobre 2024
  • Di Il Foglio
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Quarant'anni di Terminator, nato in una pensione romana a buon mercato

Per grazia ricevuta. James Cameron dovrebbe dipingere un quadretto con il volto di Arnold Schwarzenegger-Terminator (sguardo fisso sul bersaglio, anche quando mezzo rivestimento facciale è crollato, e per nascondere l’occhio robotico  acchiappa un paio di occhiali da sole). Una grazia ricevuta quarant’anni fa. Quando lo licenziarono da un film che stava girando a Roma, “Piranha 2”. Per gli spettatori italiani, “Piraña paura”. II primo film sui pesci predatori lo aveva diretto con un certo successo Joe Dante. Il lavoro serviva a campare, del resto Cameron era cresciuto nella scuderia di Roger Corman, facendo tutti i mestieri del set.
 

Di notte, in una pensione romana a buon mercato ebbe l’idea di un robot inarrestabile. Azzeccato anche il nome, “Terminator”. Mettendo in difficoltà i doppiatori italiani, che ne uscirono usando generosamente il verbo “terminare” – la parola che compare sul visore del robot quando la missione assassina è compiuta. Lui non muore mai, non con i normali mezzi anti macchina da guerra: ridotto a un tronco metallico, avanza come uno dei “Freaks” di Todd Browning, privo di gamba e braccia eppure semovente.
 

Il futuro regista di “Titanic” e ahimè di un paio di “Avatar” – mai gli perdoneremo i giganti blu ecologisti, pacifisti, privi di qualsivoglia personalità o ironia: l’elenco completo di quel che ammorba i film che non ci piacciono – invece di rimuginare sull’umiliante licenziamento (era il suo primo incarico da regista) cercò di costruire una storia attorno all’inarrestabile robot. Si sa che i film, e i racconti, sui viaggi nel tempo sempre falliscono perché c’è sempre lo scriteriato che tocca qualcosa, e una volta cambiato il passato cambia anche il futuro (sono i turbamenti del giovane Marty – l’attore Michael J. Fox – quando con il suo viaggio a bordo della DeLorean rischia di mandare a monte il matrimonio dei suoi genitori: potrebbe non nascere mai).
 

“Terminator” sfrutta all’inverso questo paradosso. Manda il robot titolare nel passato, da un futuro dove le macchine hanno preso il potere, per impedire la nascita del futuro capo della resistenza umana. Ma il paradosso colpisce ugualmente, più sul versante della tragedia greca: invece di impedire la nascita del bambino che sgominerà le macchie, la provoca. Non ci sentiamo di dire altro, se non avete mai visto il primo “Terminator”. Anche il secondo, per la verità, era geniale. Con un cattivo polimorfo, chiamiamolo Proteo, che riusciva ad assumere qualsiasi forma e consistenza, a scopo mimetico: divani, pavimenti a scacchi, lampade. Qui il guaio era fatto, bisognava rapire la madre già incinta.
 

Sull’ultimo numero di Empire, oltre all’intervista con James Cameron, c’è uno scritto di Gale Anne Hurd, produttrice del film. Anche lei cresciuta alla scuola di Roger Corman e reduce dal disgraziata avventura con i pesci carnivori. “Terminator” fu considerato di infima categoria, non presentabile alla stampa. Secondo le previsioni, sarebbe scomparso dai cinema la seconda settimana di programmazione. In fondo era costato poco più di sei milioni di dollari. Per il sequel, ne spesero un centinaio.
 

Arnold Schwarzenegger era stato scelto per il suo sguardo assassino, e osiamo dire anche per il fisico. Siccome nei viaggi nel tempo secondo James Cameron si va nudi, atterra dalle parti dell’osservatorio di Los Angeles con un fisico da culturista. Così squadrato che con le luci giuste non c’è neppure bisogno del trucco per farlo sembrare un robot, rivestito con carne sintetica di chissà quale generazione. La scena è indimenticabile, come l’occhio e la mano difettosi che saranno aggiustati con il cacciavite.

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Autore
Il Foglio

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