Quanto Marquez c'è nei “Cent’anni di solitudine” di Netflix
- Postato il 13 dicembre 2024
- Di Il Foglio
- 1 Visualizzazioni
Quanto Marquez c'è nei “Cent’anni di solitudine” di Netflix
“Cent’anni di solitudine” sbarca su Netflix. La serie, la cui produzione ha richiesto cinque anni e nove mesi da quando la piattaforma di streaming ha acquisito i diritti per adattarla, va subito in cima alla classifica. L'adattamento è stato possibile solo perché Gabriel García Márquez è morto da dieci anni, visto che in vita si era sempre rifiutato di vendere i diritti dell'opera per portarla sullo schermo. Neppure Sergio Leone era riuscito a convincerlo, come invece fece Francesco Rosi nel 1987 con “Cronaca di una morte annunciata”. Non senza qualche polemica in Colombia: in particolare, per un finale che non era quello del libro, ma ricalcava la posizione del cadavere dell’altro film dello stesso Rosi su Salvatore Giuliano, a voler accentuare una lettura della storia in una chiave “mafiosa” che in realtà nel testo originale non c’è. Anche se Gabo mostrò di gradire: forse perché estimatore del cinema italiano, fino al punto da aver frequentato un corso da regista al Centro Sperimentale di Cinematografia di Cinecittà.
Senza arrivare a quegli estremi, anche stavolta c’è qualche differenza rispetto al best-seller che, pubblicato nel 1967, ha venduto più di 50 milioni di copie ed è stata tradotto in 46 lingue, diventando uno dei pilastri della letteratura latinoamericana e il simbolo stesso di quello che fu definito il Boom latino-americano. Una prima ammissione in qualche modo “ufficiale” è arrivata su X da Orlando Oliveros, che non solo è scrittore e giornalista culturale ma anche “editor-investigator” di un Centro Internacional para el legado de Gabriel García Márquez de la Fundación Gabo, che in qualche modo costruisce una sorta di “gabologia” ortodossa.
Secondo lui, una delle inclusioni più sorprendenti è la rappresentazione dell'Ouróboros: il serpente che si morde la coda, figura che appare sia nel libro di Melquíades che nell'albero genealogico della famiglia Buendía. Come appunto Oliveros ricorda, nella tradizione alchemica, l'Uroboros simboleggia il ciclo eterno della vita e della morte, un concetto profondamente legato ai temi della ripetizione e del destino ciclico che percorrono tutto il romanzo. In questo senso, Oliveros ha sottolineato che questa figura riflette perfettamente la storia dei Buendía, condannati a ripetere i propri errori, che si manifestano nelle tragedie che attraversano le generazioni.
“Un secolo di cartomanzia e di esperienza le aveva insegnato che la storia della famiglia era un ingranaggio di ripetizioni irreparabili, una ruota giratoria che avrebbe continuato a ronzare fino all'eternità, se non fosse stato per il logorio progressivo e irrimediabile dell'asse” è il pensiero di Pilar Ternera tradotto in questo simbolo. Il tutto, peraltro, è la sintesi della filosofia in realtà abbastanza reazionaria di un romanzo che è considerato una icona progressista, ma in realtà è quasi più pessimista del “Gattopardo”, sulla possibilità di cambiare il mondo.
Un altro cambiamento significativo si riscontra nella caratterizzazione di José Arcadio Buendía. Nella serie, dopo aver ucciso Prudencio Aguilar, il personaggio torna a casa e, incontrando Ursula, le dice: “Non ci saranno più morti in questa città a causa nostra”. Nel libro invece è “Non ci saranno più morti in questa città a causa tua”. La citata Pilar Ternera appare come la levatrice di Ursula alla nascita di José Arcadio e Aureliano, rendendo più inquietanti i rapporti con i due fratelli con entrambi dei quali farà un figlio. In compenso, si toglie il racconto del libro sulla bisnonna di Ursula che dopo aver vissuto un'esperienza traumatica durante il saccheggio di Riohacha da parte del pirata Francis Drake, si trasferì in una ranchería e conobbe José Arcadio Buendía. Da questo incontro nasce un legame familiare incestuoso, che diventa uno dei tragici paradossi della famiglia. Insomma, si toglie l’incesto originale, ma se ne aggiunge un altro: per lo meno simbolico.
Riguardo alla fondazione della mitica città di Macondo, la serie ha incorporato un discorso di José Arcadio Buendía in cui si percepiscono echi di “La solitudine dell'America Latina”: il discorso di García Márquez dopo aver ricevuto il Premio Nobel. Nella serie, José Arcadio Buendía menziona una città “dove nessuno può decidere per gli altri nemmeno il modo di morire”, un passaggio che rafforza il rapporto tra il romanzo e il pensiero dell'autore sulla storia e la politica dell'America Latina.
L'adattamento ha anche cambiato una delle scene più poetiche del romanzo: l'incontro dei giovani sposi, José Arcadio Buendía e Úrsula Iguarán, con il fantasma di Prudencio Aguilar. Nel libro, l'apparizione di Prudencio è infatti accompagnata da una pioggia torrenziale che intensifica il dolore e la nostalgia dei personaggi, mentre nella serie questa pioggia scompare, cosa che ha cambiato il tono della scena e ha diminuito la carica emotiva del momento.
Allo stesso modo, un altro dei momenti emblematici che non è stato conservato è stato l'acquazzone che cade durante la nascita di Aureliano. Nella sua autobiografia “Vivere per raccontarla” García Márquez ha in effetti rievocato la propria nascita in un contesto molto simile, con un acquazzone torrenziale fuori stagione, che è diventata un'immagine che ha risuonato nella creazione di Macondo.
Ma in realtà tutto il libro è pieno di riferimenti autobiografici. La stessa Macondo è modellata sul villaggio di Aracataca: il paesino colombiano dove Gabriel García Márquez è nato, e dove fino agli 8 anni fu allevato dal nonno materno Nicolás Márquez. Tutti coloro che hanno studiato la genesi del libro concordano nel rilevare come sia stato l’ambiente in cui il Nobel passò la sua infanzia il nucleo originale attorno cui sarebbe costruito il romanzo. Perfino le vicende in apparenza più inverosimili, e che l’europeo meno avvertito tende da rubricare come mero “realismo magico”. La Remedios la bella che per la sua troppa bellezza a un certo punto ascende in cielo, ad esempio, era esistita sul serio. Era in realtà scappata di casa con un amante, e l’improvvisa “elevazione” era stata esattamente la storia che i genitori avevano raccontato ai vicini, per dare conto di quella scandalosa assenza. Anche il già citato Prudençio Aguilar che il capostipite dei Buendía José Arcadio uccide perché lo prende in giro – evento primario per cui l’assassino è costretto ad andarsene via a fondare Macondo, salvo poi ritrovarsi col fantasma in casa – echeggia l’omicidio cui era stato “costretto”, e per cui nonno Nicolás se ne era andato ad Aracataca. “Tu non sai, piccolo, che significa vivere col rimorso di aver ucciso un uomo!”, ripeteva al nipote.
Nella realtà nel 1952, mentre gira nell’interno di Colombia a vendere enciclopedie accompagnato da un amico che si chiama Rafael Escalona e che diventerà un famoso cantante, il 25enne Gabo incontrò non il fantasma dell’uomo assassinato dal nonno ma il nipote, in una storia raccontata dal biografo Gerald Martin, e che sembra un film di Sergio Leone. Dopo una settimana di viaggio i due stanno bevendo birra e rum ghiacciati in una bettola, quando si avvicina loro un giovanotto dall’aria decisa vestito da cow-boy: cappello a tesa larga, gambali in cuoio sui pantaloni, pistola alla cintura. Escalona invitandolo a unirsi alla bevuta dice al cow-boy: “Permettimi di presentarti Gabriel García Márquez”. E l’altro, stringendogli la mano: “Hha qualcosa a che vedere col colonnello Nicolás Márquez?”. “Soy su nieto”: in spagnolo “nipote di nonno”, che a differenza del generico italiano è chiaramente distinto dal “sobrino”, “nipote di zio”. “Sono suo nipote”. “Allora è suo nonno che ha ammazzato mio nonno!”. Anche Escalona ha la pistola alla fondina, ma cerca subito di sdrammatizzare. “Sì, sì, ma lui non ne sapeva niente. Sentite, perché non facciamo una bella gara a chi tira meglio?”. Le pistole vengono così scaricate, la tensione pure, i tre riprendono a bere, e anzi passeranno assieme tre interi giorni. A girare la regione nel camioncino che il cow-boy usa per il suo lavoro di contrabbandiere. E a fare conoscenza con la caterva di figli illegittimi che il colonnello Márquez ha seminato per la zona durante il conflitto. È il nipote dell’assassinato che li presenta al nipote dell’assassino. “Ah, anche questo è tuo zio!”.
Lo stesso nonno Nicolás, colonnello degli eserciti liberali durante quella guerra civile combattuta a cavallo tra XIX e XX secolo che i colombiani hanno ribattezzato “dei Mille Giorni”, è il prototipo di Aureliano Buendía, assieme a quel Rafael Uribe Uribe che di quegli eserciti fu il comandante supremo. Il colonnello Aureliano Buendía nella mitologia della sinistra internazionale è diventato una specie di icona: forse equivocando su un ritratto che in realtà non rappresenta tanto l’idealizzazione di un intrepido guerrigliero alla Che Guevara, quanto piuttosto il ritratto del suo fallimento, con la brutale burocratizzazione della lotta e il tradimento degli ideali per cui era stata iniziata. Ironicamente, un pronipote dell’Uribe Uribe vero è stato Álvaro Uribe Vélez, presidente di destra durissimo contro la guerriglia. Poi Macondo ben più che ad Aracataca deve a quella immaginaria Contea di Yoknapatawpha dove William Faulkner ambientò ben 16 dei suoi romanzi, e che è a sua volta modellata sulla Contea di Lafayette, nel Mississippi. Così come il colonnello Buendía, sconfitto in una guerra civile colombiana, deve non solo al colonnello Márquez e a Uribe Uribe, ma anche e soprattutto al colonnello John Sartoris, sconfitto nella Guerra Civile Usa, e personaggio fondante del ciclo di Yoknapatawpha.
Continua a leggere...