Quando la giustizia diventa “fai da te”: Palermo e l’antico rifiuto dello Stato

  • Postato il 29 aprile 2025
  • Attualità
  • Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella

La strage di Monreale – ultimo tragico episodio di cronaca nera che ha scosso l’intera provincia di Palermo – ha riaperto una ferita antica: il riflesso popolare di volersi fare giustizia da soli. La rabbia della gente, l’invocazione di pene esemplari, l’accusa frontale a uno Stato percepito come assente o inefficace non sono reazioni nuove in Sicilia. Anzi, affondano le radici in una storia lunga secoli, in cui la fiducia verso l’autorità istituzionale è sempre stata debole, e in cui l’idea stessa di giustizia è stata spesso vissuta come fatto privato, personale, comunitario.

Ma perché succede? Da dove nasce questo istinto collettivo che sembra superare ogni tempo e ogni cambiamento sociale?

Per comprendere l’atteggiamento dei palermitani (e, più in generale, dei siciliani) nei confronti dello Stato, bisogna compiere un salto indietro nella storia. La Sicilia è terra di dominazioni: fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, svevi, angioini, aragonesi, spagnoli, borboni. Ogni potere centrale, che sia stato impero, regno o governo, è sempre stato vissuto come straniero, lontano, incapace – o peggio, non interessato – a tutelare gli interessi reali della popolazione. Questa lunghissima esperienza di “governi esterni” ha generato un sentimento profondo di sfiducia verso ogni forma di autorità ufficiale. Non solo: ha costruito una cultura parallela, un sistema di valori che premia l’autonomia individuale, la gestione personale dei conflitti, la protezione dei propri diritti senza aspettare interventi dall’alto. Quando le istituzioni sono viste come complici dei forti e indifferenti verso i deboli, la giustizia diventa una questione privata. Un altro elemento fondamentale per comprendere le reazioni emotive come quella scoppiata dopo la strage di Monreale è la cultura dell’onore. In Sicilia (come in altre aree del Mediterraneo) l’onore personale e familiare è da sempre considerato il valore supremo. In questa prospettiva, l’offesa non è solo un crimine oggettivo da punire secondo legge: è un disonore da lavare. E la vendetta – o meglio, la risposta immediata e proporzionata all’offesa – diventa non solo legittima, ma doverosa. Anche in epoca moderna, questo retaggio sopravvive in forme nuove: la richiesta di “giustizia rapida”, la voglia di vedere i responsabili “puniti subito”, il sospetto verso un iter giudiziario lungo e incerto sono espressioni attualizzate di una mentalità che affonda nei codici ancestrali dell’onore. Se analizziamo le cronache successive a eventi drammatici come la strage di Monreale, troviamo sempre due costanti: l’urlo collettivo (“dov’è lo Stato?”) e il sospetto che la giustizia istituzionale non sarà sufficiente a sanare l’ingiustizia subita. Questa percezione non è totalmente irrazionale. La Sicilia ha vissuto decenni – se non secoli – di disfunzioni strutturali: corruzione politica, lentezza giudiziaria, complicità tra potere e malaffare. Non sono pochi i casi in cui i responsabili di crimini gravi sono riusciti a ottenere sconti di pena o addirittura a sfuggire alle condanne grazie a cavilli legali. In un simile contesto, il cittadino comune sviluppa una naturale inclinazione a considerare inefficace l’intervento dello Stato e a coltivare il mito dell’intervento diretto, dell’azione immediata, della “giustizia popolare”. La mafia stessa – fenomeno criminale più conosciuto della Sicilia – si è storicamente presentata come risposta a questa carenza istituzionale. In origine, i mafiosi non si proponevano come semplici criminali, ma come “risolutori” di problemi: proteggevano, garantivano, vendicavano, amministravano “giustizia” per conto di chi non si fidava dello Stato o non poteva contare su di esso. Oggi, mentre la lotta alla mafia ha fatto passi da gigante, il sentimento di sfiducia collettiva non è scomparso. Si è trasformato: invece di affidarsi a un “antistato” criminale, si invoca una giustizia sommaria sui social network, si celebrano i “giustizieri” improvvisati, si alimenta un populismo giudiziario che chiede punizioni esemplari e immediate, anche al di fuori dei percorsi processuali regolari.

La reazione emotiva della comunità di fronte a eventi come quello di Monreale è anche il segno di una solitudine sociale profonda. Quando accade una tragedia che colpisce famiglie, amici, vicini, la comunità si stringe, si riconosce come “noi”, in contrapposizione a “loro” – lo Stato, i criminali, il sistema. In questo “noi” compatto, il bisogno di vedere puniti i responsabili diventa un bisogno identitario: difendere la memoria delle vittime diventa difendere l’intera comunità. Se lo Stato non riesce a dare risposte rapide e convincenti, la comunità sente di dover agire autonomamente, almeno a livello simbolico. Non si può liquidare tutto come mera “barbarie” o “ignoranza popolare”. Le istituzioni italiane – e non solo quelle siciliane – portano una responsabilità storica pesante nell’avere spesso disatteso le aspettative di giustizia, sicurezza e dignità sociale dei cittadini.

In assenza di una politica seria di educazione civica, di una giustizia realmente rapida ed efficace, di una presenza capillare e positiva dello Stato nei territori più difficili, è inevitabile che antiche pulsioni collettive riemergano. La sfida culturale è immensa: si tratta di ricostruire fiducia, legittimità, senso di appartenenza. E questo richiede non solo leggi e forze dell’ordine, ma soprattutto educazione, partecipazione, responsabilizzazione delle comunità. Quando un popolo sente che la giustizia non è garantita da chi dovrebbe tutelarlo, si organizza da sé. È un istinto antico quanto l’umanità. In Sicilia, questo istinto si è stratificato in una cultura storica complessa, dove l’onore, la vendetta, l’autonomia sono stati strumenti di sopravvivenza in un mondo dominato dall’incertezza.

Oggi, però, la sfida è diversa: è necessario spezzare il circolo vizioso della sfiducia. Non servono solo parole dopo l’ennesima strage: servono azioni concrete che dimostrino che lo Stato non è un nemico, né un’astrazione, ma una presenza viva, capace di garantire giustizia, sicurezza, dignità. Fino ad allora, ogni Monreale riaccenderà la stessa rabbia, la stessa voglia di farsi giustizia da soli. E ogni volta sarà una sconfitta per tutti.

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