Quando la fotografia cattura un attimo di immortalità

  • Postato il 4 luglio 2025
  • Di Panorama
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Due secoli fa nasceva la fotografia, ma il suo nome di battesimo fu eliografia: un omaggio al sole, prima che alla luce. A vederlo quel primo campione dopo tanti tentativi, che Joseph Nicéphore Niépce titolò Point de vue du Gras, sembra poco più che una macchia indistinta, tra oscurità e chiarore. Poi alcuni anni dopo, nel 1839, la fotografia apparve più verosimile; fu chiamata dagherrotipo, dal suo autore Louis Daguerre, ed ebbe un soggetto che ne avrebbe fatto di strada: Boulevard du Temple, il Viale del Tempio. La fotografia ha una storia piuttosto recente, ma ciò non toglie che abbia un’età antica, un medio evo e un’età moderna: la prima è quella del dagherrotipo, la seconda delle foto in bianco e nero, la terza del colore. Poi venne l’età contemporanea e si passò alla foto digitale, al selfie, al photoshop, al time-lapse e allo smartphone onnifacente.

Roland Barthes fece notare che la fotografia nacque nel secolo della storia e Walter Benjamin invece notò che la fotografia è sorella del socialismo. I due paragoni sono pertinenti: la fotografia è in fondo il documento che fa storia, e nella sua riproduzione seriale c’è un destino parallelo all’industria e agli operai in fabbrica. La fotografia ha avuto una vita pubblica, storica, vorrei quasi dire monumentale, legata a eventi e personaggi storici; e una vita privata, riferita alla gente comune, alle famiglie e ai loro album, ai ritratti e agli affetti di casa. A differenza del ritratto in pittura riservato a nobili e benestanti, il ritratto fotografico riconobbe “il diritto al volto” esteso a tutti, come nel suffragio universale. Le fotografia privata è stata il luogo elettivo in cui trattenere i ricordi, salvare lembi di vita e ha avuto un inevitabile valore nostalgico. In un saggio sulla fotosofia che ho pubblicato in appendice aC’era una volta il Sud, ho parlato dell’Attimo fulgente, che immortalava attraverso un flash quel momento, quei volti, quell’incontro. La foto può avere tre moventi principali: estetico, ovvero la bellezza dell’immagine ritratta; documentario, ossia comprovare un fatto, un incontro, un avvenimento; evocativo, perché rammenta, ricorda care figure e momenti del passato. La fotografia racconta una breve eternità, una piccola immortalità su lastra o pellicola. A volte hai l’impressione, guardando le foto del passato, che quei ritratti ti guardino a loro volta, come notava Katja Petrowskaja in La foto mi guardava (Adelphi).

«Imago lucis opera expressa» sarebbe stata la definizione latina della fotografia secondo Roland Barthes. Il cuore di una foto per lui è l’aria, che somiglia all’aura di cui scriveva Benjamin che di solito si perde quando un’opera d’arte è riproducibile in più copie. Ma fa eccezione, spiegava lo stesso Benjamin, il ritratto fotografico dei cari, che benché riproducibile e in più copie, conserva l’aura dovuta al «culto del ricordo dei cari lontani o defunti»; «Nell’espressione fuggevole di un volto umano dalle prime fotografie, emana per l’ultima volta l’aura».  La prima “fotografia” ante litteram riconosciuta e adorata dai cristiani è la Sacra Sindone, il ritratto impresso del volto di Gesù Cristo dopo la crocifissione. Non è una foto e non è il ritratto di un pittore, ma il timbro miracoloso e pietoso di un volto martoriato, impresso in un lenzuolo di lino; l’immagine sacra in un’impronta umana, sigillo di sofferenza; la divinità che lascia un’orma di sangue nella storia. Al di là delle controversie sulla sua autenticità e sull’effettiva datazione, per i credenti è la prova “fotografica” di Gesù che si è fatto uomo ed è morto in croce.  La fotografia è una rappresentazione del Giudizio universale, sostiene Giorgio Agamben, che si confessa incantato dalle fotografie proprio per il loro significato profetico. L’immagine fotografica, per Agamben, è più che un’immagine, è il luogo di passaggio tra il sensibile e l’intelligibile, tra la copia e la realtà, tra il ricordo e la speranza. 

Tra i ritratti fotografici più memorabili ricordo quello di J.L. Borges che avvenne in un giorno particolare, giusto cinquant’anni fa. Era stato concordato col fotografo Richard Avedon, da tempo, ma quel giorno, l’8 luglio 1975, era morta la madre del poeta, a cui era legatissimo e con la quale aveva convissuto per tutta la vita. Il fotografo pensava che Borges avrebbe disdetto l’appuntamento. Invece, racconta Geoff Dyer nel suo saggio sulla fotografia, L’infinito istante (il Saggiatore), Borges lo conferma e alle quattro del pomeriggio, seduto su un divano immerso in una luce grigia, si lascia ritrarre dal fotografo. Nella stanza accanto giace il corpo di sua madre. Solo Borges poteva sublimare il dolore di una perdita così importante nell’immagine illusoria e grottesca del suo ritratto in quel giorno ferale; ritratto che la sua cecità non gli avrebbe permesso di vedere. Sicché quel ritratto fu un’apparizione tra due scomparse: la vista e la madre. «Una pittura che sembra una fotografia», notava Leonardo Sciascia, «non è una buona pittura, e una fotografia che sembra una pittura non è una buona fotografia». A Sciascia si deve forse la definizione più acuta del ritratto fotografico nella sua essenza: entelechia, espressione aristotelica usata anche da Dante che indica una realtà vivente che ha dentro di sé lo scopo (telos) della sua vita. In un ritratto cogli ciò che anima quel volto: la sua origine, la sua passione, il suo tormento, la sua sorte. Il destino racchiuso in una camera oscura. La fotografia trasforma la vita in mito. Poi venne lo smartphone…

Autore
Panorama

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