Quando il cloud va in tilt: l’illusione della sicurezza digitale e la fragilità dell’efficienza perfetta
- Postato il 4 novembre 2025
- Di Panorama
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Nei giorni scorsi il cloud di Microsoft è andato in down e, a catena, migliaia di impianti domestici di un noto brand italiano hanno smesso di funzionare. Non c’era alcun problema di gas, pressione o termostati: semplicemente, il cloud da cui dipendevano aveva deciso di prendersi qualche ora di ferie. L’acqua è rimasta fredda esattamente come quella che cade dalle nuvole, quelle vere.
È la fotografia più limpida della nostra epoca: interconnessione globale per ottenere efficienza dimenticandoci che con essa ci siamo portati a casa una complessità che non si limita a connettere, ma distribuisce anche la fragilità con una precisione chirurgica. Un tempo si parlava di “guasto locale”, oggi è l’idea stessa di “locale” a non avere più senso.
Il cloud, nato per rendere tutto disponibile e ridondante, è diventato la metafora di una fiducia mal riposta. “Scalabile”, “resiliente”, “as a service”: lessico della tranquillità apparente. Poi, basta un’interruzione nella rete globale per scoprire che il termostato di casa dipende da un data center a Dublino o da un algoritmo che gira a Seattle. La distanza non è più spaziale, è cognitiva: nessuno sa davvero dove vivono i propri dati, né da dove arriva il calore nel proprio salotto.
Il paradosso è che la fragilità non nasce dall’errore, ma dall’efficienza. Più una catena è ottimizzata, più perde capacità di assorbire scosse. Così la logistica dei beni e quella dei bit condividono lo stesso destino: basta un intoppo e si ferma tutto, dai camion alle docce calde. È la “supply chain del comfort”, che funziona soltanto finché tutto funziona, ma proprio tutto.
Abbiamo costruito infrastrutture digitali come fossero ecosistemi, dimenticando che ogni ecosistema sano prevede anche decomposizione, ridondanza e spreco. Noi invece li abbiamo eliminati, in nome della performance. E oggi paghiamo quella purezza ingegneristica con un’imprevista vulnerabilità biologica: siamo organismi dipendenti da un software che non controlliamo.
Non serve indignarsi con Microsoft: il problema non è il singolo fornitore, ma il principio. Abbiamo delegato al cloud il ruolo di centro vitale, senza però dotarci di un backup (ridicolo per chi si occupa di sicurezza). Ogni “servizio distribuito” è anche una fiducia distribuita e quando si rompe uno dei due l’altro ne segue il destino. Inutile la nostalgia del vecchio mondo meccanico, quello che non brillavano di intelligenza, ma in cui le cose si guastavano una alla volta, senza fare notizia.
Tutta questa complessità non può più essere ridotta, ma va resa porosa, imperfetta, con punti di disaccoppiamento e libertà locali. In fondo, nell’era del cloud, la vera sicurezza inizia dall’essere consapevoli che dalle nuvole arriva la pioggia e se non vogliamo bagnarci dobbiamo avere una soluzione ben “localizzata” sopra la nostra testa.