Promuovere la cultura della difesa è un atto di responsabilità istituzionale e non politica
- Postato il 15 dicembre 2025
- James Bond
- Di Formiche
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La crescente difficoltà di percepire le minacce che si configurano nella società delle reti complesse richiede un ripensamento profondo, sia degli approcci teorici, sia degli strumenti metodologici soliti della ricerca scientifica applicata agli studi sociali. In relazione a questa prioritaria evidenza, è richiesta una maggiore sinergia tra gli attori coinvolti nella gestione della mitigazione del rischio. Governo, media, università e cittadini sono chiamati a convergere verso una sola direzione al fine di promuovere una cultura della prevenzione e della resilienza.
Le minacce, di natura antropica, a cui le organizzazioni sono esposte, possono essere di diversa connotazione: climatica/naturale, industriale, tecnologica/cibernetica/elettromagnetica, cognitiva, informativa, psicologica, militare, infrastrutturale, biologica/sanitaria. Pur non affrontando in questa sede un più ampio approfondimento di questa classificazione in quanto non oggetto del presente documento, vorrei soffermarmi sulle tre insidie che agiscono nel dominio mentale e, cioè, quella cognitiva, quella psicologica e quella informativa. Tre pericolosità che possono sovrapporsi perfettamente al fine di raggiungere l’obiettivo con maggiore efficacia.
La pressione sociale (psicologica), la costruzione di stereotipi sui leader politici target (cognitiva) e il rumore mediatico (informativa) rappresentano strumenti che, quotidianamente, realtà pubbliche e private utilizzano per scopi strategici. Riconoscerle aiuta a progettare contesti più sicuri e meno vulnerabili e, per questo, promuovere una conoscenza collaborativa, anche detta co-produzione della conoscenza, rappresenta un dovere istituzionale nell’interesse della Nazione. Già la sociologa e antropologa inglese Mary Douglas nel secolo scorso offrì una nuova interpretazione della minaccia nell’ottica della prospettiva sociale; la studiosa affermò che il rischio non è semplicemente un dato oggettivo, ma il prodotto di processi culturali, simbolici e politici e, pertanto, il metodo applicato nella gestione richiede il contributo di tutti gli attori interessati: comunità scientifica, enti e cittadinanza attiva. Ecco, quindi, che la “cultura della difesa” non è solo un claim politico o un tema esclusivo del ministro della Difesa e del suo dicastero, ma una responsabilità condivisa che va affrontata con un approccio multilivello e in forma sistemica. Una responsabilità che trova ragione anche negli studi che attestano che le società ove vi è minore fiducia nelle istituzioni e nella componente politica sono le più esposte a ingerenze esterne e sono anche le meno resilienti in caso di sconvolgimenti. Difatti l’erosione della fiducia nelle istituzioni o nella politica avviene quando narrative o azioni mirate vengono promosse da avversari noti o da proxy capaci di generare frammentazione sociale (disuguaglianze) e accentuare le divergenze culturali (politica, religione).
Proprio il nostro Paese è stato più volte “attaccato”, anche in momenti particolarmente delicati come quello della pandemia da coronavirus o in occasione di appuntamenti elettorali, attraverso l’uso di strumenti automatizzati (robotrolling) atti a minare la credibilità delle nostre organizzazioni pubbliche. Con questo articolo non si vuole descrivere un caso specifico e non si vuole analizzare neanche uno scenario geopolitico, semplicemente si vuole ribadire l’importanza di poter promuovere studi e dibattiti in contesti democratici come il nostro Paese che ha scelto di condividere principi occidentali. Ciò, purtroppo, non accade in altre realtà e misure come la frammentazione di internet (splinternet), la censura dei media o il controllo sulla libertà della ricerca scientifica, garantiscono ad alcuni governi di mitigare la minaccia cognitiva, psicologica e informativa con azioni autocratiche. Le stesse realtà, però, possono essere facilmente compromesse (primavera araba) e subire isolamenti e fughe di cervelli. Vi è quindi la necessità di costruire nuovi patterns nella narrativa della difesa e tener bene a mente che una comunità con una forte coesione, dove individui e istituzioni convivono garantendo un equilibrio sociale, visione organicistica della teoria funzionalista, risponde meglio alle crisi. Va dunque nella giusta direzione l’impegno promosso da Guido Crosetto e dalla sua struttura perché solo così, attraverso l’attuazione di un approccio multidisciplinare e inclusivo si potrà affrontare, efficacemente, la complessità delle minacce, al fine di ridurre l’esposizione ai rischi e indirizzare i cittadini verso nuove forme di consapevolezza, offrendo loro opportunità di ausilio e di risposte efficaci.