Prof in Belgio. “Volevo insegnare in Italia, ma la burocrazia è sempre più complessa. Qui c’è rispetto e lo stipendio è doppio”

  • Postato il 26 ottobre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Sono figlio di due medici che mi hanno sconsigliato di fare il loro lavoro, quindi ho studiato lettere e ho superato il concorso per la Scuola Normale di Pisa, dove mi sono laureato nel 2016”. Andrea Bianco, classe 1992, vive a Bruxelles da circa un anno e insegna storia, ma si definisce un “oriundo piemontese”. La sua vita inizia poco fuori Torino, dove cresce e si diploma, per poi proseguire gli studi nella prestigiosa istituzione Toscana. “Dopo la laurea ho continuato a costruirmi un curriculum intellettuale,” racconta al fattoquotidiano.it. “Mi sono occupato di traduzioni dall’inglese, in particolare di alcuni manuali del politologo americano Codevilla, e ho approfondito gli intellettuali italiani a cavallo tra Fascismo e Repubblica”. Lavori connessi al suo percorso di studi ma insufficienti a fornirgli l’autonomia economica e professionale di cui aveva bisogno. “Nel mentre, per mantenermi, ho fatto molto altro; ho lavorato in hotel sulla riviera romagnola e in un’azienda che vendeva vasche idromassaggio”. Un percorso proseguito per qualche anno. “Reputo la gavetta estremamente utile, non mi sentirei contento dei miei meriti culturali se non avessi fatto anche questo”, lo mette in chiaro. Poi è arrivato il momento in cui ha detto basta. “Ero stanco, avevo deciso di aver imparato abbastanza e volevo tornare a fare un lavoro intellettuale”, spiega. Una stanchezza che lo ha portato a cercare opportunità fuori dai confini nazionali, una prospettiva più vicina alle sue inclinazioni e agli studi.

L’alternativa arriva tramite una ricerca su internet. È navigando in rete che entra in contatto con una scuola ungherese operante in Belgio, al nord, dove la vita sembra diversa. Servono insegnanti, la scuola ha aperto da poco e cerca personale da ogni parte d’Europa. “Quello che faccio qui in Italia non esiste – racconta Andrea. – Sono una via di mezzo tra un insegnante e un impiegato amministrativo, mi occupo di accogliere e aiutare nell’inserimento ragazzi dell’est Europa – Slovacchia, Romania, Ucraina – che vengono per una sorta di viaggio d’istruzione nel periodo tra il liceo e l’università. Si tratta di ragazzi con medie molto alte, che arrivano per entrare in contatto con la storia e le istituzioni locali, ma anche con le università”. Gli studenti con cui lavora Andrea vengono da diversi paesi e diversi gruppi etnici, compresa quella Rom, un insieme eterogeneo di giovani che si affacciano al mondo degli adulti.

A metà tra il docente in senso stretto e il punto di riferimento per chi si appresta a una realtà nuova. Un expat che fa da guida a giovanissimi che vogliono fare la stessa cosa. Ma soprattutto un uomo che si sente appagato da quel che fa, anche economicamente. “Nonostante la tassazione belga sia molto alta lo stipendio medio di un insegnante è circa il doppio di quello che è in Italia, ci si vive tranquillamente”. Una situazione salariale migliore a cui corrisponde anche la sensazione di un maggior rispetto sociale per la figura dell’insegnante. Tanto basta ad Andrea per dire che no, probabilmente non tornerà in Italia.

Per lui il problema centrale è la differenza tra teoria e pratica, tra quanto scritto sulla carta e quanto accade nel concreto. La sua opinione è molto chiara quando rievoca la sua esperienza alla Normale di Pisa, che avrebbe dovuto garantirgli la possibilità di iniziare subito ad insegnare. Eppure “da una ventina d’anni è praticamente impossibile a causa di un meccanismo burocratico-amministrativo sempre più complesso”, spiega, riferendosi alle supplenze e al percorso a ostacoli richiesto in Italia per diventare docenti, tra crediti aggiuntivi, abilitazioni e concorsi. Una strada complessa, tanto da farlo desistere nonostante si fosse avvicinato alla Normale proprio per seguire quel sogno.

“Quel che noto è che le istituzioni di eccellenza – sempre più numerose – vengono mantenute in modo puramente museale, senza che diventino un vero e proprio strumento di ingresso diretto nel mondo del lavoro”, dice. Secondo Andrea una ragione in fondo a tutto questo c’è, e la si trova nella mancanza di una “continuità politica, una programmazione”, un percorso univoco. Il risultato sono grandi istituzioni che producono cervelli, che formano i ragazzi e poi li mandano a lavorare altrove. “Di fuga di cervelli si sentiva parlare già quando andavo alle medie, e all’epoca speravo di non doverlo fare anch’io” racconta ancora Andrea, rimarcando come gli dispiaccia di non potersi rendere utile per lo Stato dove è nato e ha ricevuto la formazione che ora usa in un altro paese. Poco più di un’ora di volo da Torino, ma una vita diversa.

Eppure l’idea di rientrare in Italia al momento non lo sfiora, perché le condizioni non ci sono. “Tornerei se in Italia vi fosse una vera dignità salariale e si desse più valore all’insegnamento. Da noi manca un’autocoscienza, mancano d’importanza materie come la storia e la geografia. Quel che vedo da qui è che in tanti altri paesi c’è molto più orgoglio, anche scolastico, per la propria storia. Noi ne abbiamo tantissima e la lasciamo andare così. Quando invece mi rapporto coi ragazzi degli altri paesi li vedo sempre orgogliosi e attenti. Lo stesso vale per la letteratura, ad esempio”. E questo vale tanto per gli insegnanti quanto per gli studenti: “Vorrei ragazzi affamati di cultura, ma anche uno Stato in grado di riconoscerne il potenziale”.

Sei una italiana o un italiano che ha deciso di andare all’estero per lavoro o per cercare una migliore qualità di vita? Se vuoi segnalaci la tua storia a fattocervelli@gmail.com

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Il Fatto Quotidiano

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