Pregiudizi sul taglia e cuci

  • Postato il 6 giugno 2024
  • Di Il Foglio
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Pregiudizi sul taglia e cuci

È stato in prevalenza un lavoro per uomini. Le mani che meticolosamente infilavano punti con fili di seta, lino, cotone e oro per rendere gli abiti preziosi e unici, sono state maschili per centinaia di anni. Ricamare per lavoro, nel passato, è stata una loro prerogativa, come peraltro documenta lo storico irlandese Joseph McBrinn in “Queering the subversive stitch” (Bloomsbury, il titolo è davvero intraducibile se non con una perifrasi fra la “trasformazione in queer” e “punti sovversivi”), il primo saggio mai scritto sul lavoro d’ago maschile e sulle ragioni per le quali, dall’Ottocento in poi, il loro apporto nel ricamo, nella maglieria e nella tessitura e tappezzeria, basti pensare all’atelier dei Gobelins, venne allineato all’ideologia dell’impiego femminile.

 

Eppure, fino all’Ottocento, la grande maggioranza delle donne, in particolare delle donne borghesi, ricamava per diletto, cioè per occupare lunghe giornate oziose o per cucire il proprio corredo: divenne un lavoro anche per loro con l’avvento delle grandi sartorie e la diffusione dell’alta moda ai ceti borghesi. Eppure, i grandi nomi del ricamo, continuano ad essere maschili: François Lesage in Francia, maison che da decenni è ormai parte della galassia Chanel (fra le sue attività, anche il sostegno ai corsi di ricamo promossi dalla King’s Foundation di re Carlo III d’Inghilterra); in Italia Pino Grasso, scomparso nel 2020 dopo aver creato il più importante atelier di ricamo in Italia e costituito un archivio di diecimila disegni che ripercorrono la storia del made in Italy di eccellenza: le ampie volute per Emilio Federico Schuberth, l’arte fintamente povera di Germana Marucelli, i coralli di un’indimenticabile collezione di Valentino, le cannette in sfumature digradanti di Giorgio Armani, l’estremo oriente sontuoso ma rigoroso di Gianfranco Ferré, la Sicilia riconoscibilissima dei Dolce&Gabbana, la sera sorprendente di Prada. “Li ha conosciuti tutti e da ognuno ha imparato qualcosa: da ogni collaborazione è nata un’idea, una novità”, dice la figlia Raffaella, che oggi governa l’atelier e la Scuola di Ricamo, fondata nel 2015. Milanese di genitori siciliani, Pino Grasso decise di interrompere gli studi di medicina quando vide il padre di un collega di università intento a ricamare nel suo laboratorio, immerso tra rotoli di tessuti, pietre e perline. Ne rimase affascinato e in quel momento capì che quella sarebbe stata la sua storia. Era il 1958, l’Italia stava vivendo con spensieratezza il boom economico, e la famiglia di Pino Grasso non era affatto lontana dal mondo creativo: suo padre aveva infatti l’hobby della pittura, mentre due zii avevano ideato rispettivamente l’abito da uomo realizzato con una sola cucitura e una linea di produzione di scarpe ortopediche artistiche. L’inizio dell’avventura fu travolgente, fra lunghi periodi trascorsi ad apprendere segreti ed a raffinare la tecnica, presso le grandi scuole francesi di ricamo, come quella di Mesrine. Grasso iniziò poi a fare la spola con Parigi dove le grandi case di moda e i laboratori di ricamo italiani accreditati avevano la possibilità di acquistare i cartamodelli degli abiti presentati al termine delle sfilate.

 

Da questi viaggi, racconta Raffaella Grasso, mio padre tornava non solo arricchito in termini di competenze e conoscenze ma soprattutto sempre più innamorato del mondo della broderie, del ricamo. Amabile e curioso, divenne amico d’importanti grossisti di materiali per il ricamo: Lecocq Riu e Rech gli fecero scoprire il mondo delle paillettes, Fred Friere quello delle perle, delle pietre e degli strass, mentre con Alfred Gaydan e Alexandre apprese i segreti delle passamanerie. Per scegliere aghi ed uncinetti, amava perdersi nella bottega di Montezine. “Mio padre amava quelle frequentazioni e con molti di loro condivideva non solo la passione ma anche il lavoro, che in quegli anni non mancava, ed era spesso molto complesso. Proprio con Lesage realizzò alcuni lavori particolari, stringendo un’amicizia. “Oltre ad avere una grande manualità e a possedere grande fantasia, era un perfetto organizzatore del lavoro: benché fosse da solo, affiancato solo un pochino da mio nonno, quando aprì il suo laboratorio, un piccolo locale in via Donizetti vicino al Conservatorio, poteva già contare su uno straordinario gruppo di ricamatrici, che lavoravano da casa, in modo da poter continuare a badare alle loro famiglie. Ogni mattina andava a controllare i lavori, portava loro i disegni, i materiali, i modelli che lui stesso realizzava, dispensava consigli e suggestioni. Per mio padre i dipendenti sono sempre stati al primo posto, li ha sempre considerati la sua famiglia. Anche quando, a metà degli anni Ottanta, aprì un laboratorio più grande, con le ricamatrici che lavoravano al suo interno insieme ad altre figure professionali, c’è sempre stata un’atmosfera molto famigliare.” Parte di quel mondo è scomparso, sostituito da logiche commerciali molto diverse.“Dalla fine degli anni Cinquanta, per almeno quarant’ anni, abbiamo vissuto l’epoca dei sarti che hanno fatto grande il mondo della moda, stilisti che hanno creato dei loro marchi che tutt’ora esistono e dei quali conoscevano tutti i processi di produzione, i materiali, le tecniche dei ricami, i materiali. Quando realizzavano una collezione partivano con un’idea, avevano chiara la linea creativa e tutti quelli che vi lavoravano, compreso mio padre con i suoi ricami, si muovevano all’interno di quella idea. Ora è tutto cambiato, si lavora con gli uffici stile dei vari brand che raccolgono proposte, idee e le sottopongono al designer che poi realizza la collezione. E’ un processo al contrario”. Il laboratorio Grasso Ricami lavora una ventina di persone, dice ancora Grasso, e ha ancora la fortuna di lavorare con stilisti e brand che danno valore all’artigianalità. Questo non significa che non siano cambiati i modi e i tempi di realizzazione dei progetti. “Ai tempi di mio padre e dei grandi couturier, ogni vestito aveva una sua struttura ed originalità; il ricamo serviva ad abbellire l’abito, non a sovrastarlo. Adesso raramente l’abito ha una linea, spesso scompare sotto ricami fitti e pesanti decorazioni, oppure diventa semplicemente una superficie per applicare paillette senza un senso. Mio padre studiava in quale modo una paillette dovesse essere cucita per prendere una certa luce, affinché il vestito brillasse in una maniera particolare. Usava aghi, uncinetti e crochet come dei pennelli per realizzare un quadro. Amava modellare e creare materiali ai quali dava forme particolari utilizzava nel ricamo dando vita qualcosa di unico”. Eppure, non tutto è perduto, anzi: “Il pret a porter di lusso, la couture ma anche tanti nuovi stilisti emergenti, stanno puntando sempre di più sulla qualità e l’esclusività e questo rende possibile portare avanti la tradizione di mio padre.”

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Autore
Il Foglio

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