Povertà, politica, lavoro e sentimenti, Paolo Licata fa rivivere Rosa Balistreri nel film L’amore che ho

  • Postato il 6 maggio 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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È un momento di pausa, una riflessione col pennello: non sa staccarsi dalla chitarra, neppure quando Manfredi le chiede l’immobilità per poterla ritrarre. “Ma quale artista? Io cunto le storie de’ disgraziati”, dice liberando la bocca dalla sigaretta. “L’arte può fare anche questo”. “E allora significa che io sono l’artista dei disgraziati“.

Si presenta così Rosa Balistreri al 29esimo minuto del nuovo film di Paolo Licata, L’amore che ho: un biopic, un film che sa di vita (o una vita che è “da film”). La complessa ricostruzione, a metà tra memoria biografica e sfumature romanzate, della cuntastorie più famosa (e divisiva) della Sicilia, Rosa Balistreri, nata a Licata in un momento storico in cui povertà, disagio, prepotenza erano le monete correnti del popolo.

È un film che dà voce alla Voce a distanza di oltre trent’anni dalla sua morte (1990), e lo fa all’insegna del movimento. Senza una narrazione “lineare”, cioè cronologica, il film ci fa vivere di salti temporali costanti, un procedere e arretrare tra anni Venti e Novanta, chiedendoci di ricostruire e mettere ordine in una vita complicata. Una vita fatta di sofferenze, privazioni, abusi, tradimenti e lacrime – dal carcere alle molestie, dall’omicidio della sorella al suicidio del padre, fino al fragile rapporto con la figlia – che hanno reso Rosa quel che è diventata: “Non una cantante, ma un’attivista che fa comizi con la chitarra“.

Il film di Licata è una lunga “soggettiva” dove la sceneggiatura è la musica stessa, una colonna sonora che si fa personaggio. Le canzoni popolari della Balistreri sono l’entry-point per eccellenza: scandiscono i giri di vite della protagonista e di chi le gravita intorno; esprimono amore e dolore, rabbia e riscatto, lotta e speranza, fungendo da cassa di risonanza del malcontento popolare e delle voci spente delle donne abusate, in una Sicilia (ma non solo: è “Sicilia solo per caso”, direbbe Vittorini) lasciata a sé stessa, sorda alle istanze dei suoi figli (Terra ca nun senti / ca nun voi capiri…). È un film che vive di rumori: i silenzi affiorano ovattati, col peso della riflessione, oppure come parte ineliminabile del canto della Balistreri che il poeta Ignazio Buttitta – che per lei scrisse numerose liriche – definì “strozzato, drammatico, angosciato, pareva che uscisse dal terrazzo della Sicilia”.

Da sinistra Ignazio Buttitta, Angela Torregrossa, Rosa Balistreri

L’amore che ho non è solo un archivio di memoria e di voci dal sottosuolo testimoniate da vivi (il film è liberamente ispirato al libro biografico del nipote di Rosa, L’amuri ca v’haju). È riflessione sui nostri tempi. Rosa Balistreri è stata una siciliana eretica, sì. Ma prima che “siciliana” era “fimmina” e il suo grido era quello di tante altre donne vissute in quegli anni (’60 e ’80) di fervore socio-culturale. E, a ben vedere, tutt’oggi in lei possiamo immedesimarci: perché violenza e pregiudizi stanno ancora attaccati umidicci alla pelle. “Rosa è stata una femminista ante litteram in un periodo in cui essere femministe era impossibile. È stata una donna che ha voluto fare un determinato tipo di carriera in un periodo in cui le donne venivano guardate con molta diffidenza se volevano fare le cantautrici. Lei – dice al Fattoquotidiano il regista Licata – ha sempre avuto questo spirito combattivo, questa energia, per quello che è giusto. Rosa era una paladina dei più deboli, si schierava dalla parte di chi subiva”. Non ci sorprende allora che una storia degli anni Quaranta torni a farci masticare amaro in tempi contemporanei.

“Ritengo – aggiunge Licata – che la Sicilia sia molto cambiata da quei tempi lì. Se prendiamo per esempio Licata stessa [paese nativo di Rosa, ndr] vediamo che nel film si tratta di un piccolo villaggio di campagna, mentre ora è una cittadina bella, curata, con un porto internazionale. Quello che non è cambiato è l’essere umano: le tematiche della violenza, degli abusi in famiglia, delle prevaricazioni dei datori di lavoro sui lavoratori“. Con annessi e connessi: ingiustizie sociali e gerarchie di potere, disoccupazione ed emigrazione, fame guerra abbandono. Il rischio di perdere il conto c’è, e ancor più quello di uscire arresi, “vinti”. Rosa lo sapeva, ma l’importante era ripetersi il contrario: Grapu li pugna, cuntu li jita / restu cu sugnu, cercu la vita, / cantu e cuntu, cuntu e cantu, / pi nun perdiri lu cuntu.

Oltre la sfera pubblica, c’è quella privata: la lontananza dalla figlia Angela negli anni in cui Rosa è chiusa in carcere per l’aggressione al marito, il precario rapporto emotivo tra le due…Nel film quella tra Rosa e Angela – interpretate rispettivamente da Anita Pomario/Donatella Finocchiaro/Lucia Sardo e da Tania Bambaci – è una partita a due che si acutizza al punto che la figlia diventa l’unico pubblico davanti a cui l’artista deve esibirsi. “Il problema qui – commenta Licata – è l’incomunicabilità, la difficoltà di manifestare i propri sentimenti. Angela si porta dentro il classico rancore della figlia che non si è mai sentita amata. Il rapporto che deve recuperare con Angela diventa allora per Rosa la missione principale”. Rosa Balistreri è per tutti, non solo per i siciliani. Un’artista che ha fatto della sua voce arcaica un presidio di valori e la cui scomodità ha fatto a pugni con l’andazzo generale. Le musiche popolari – qui curate da Carmen Consoli – sono un atto politico, uno stato della mente. Per ieri e per oggi. Oltre le parole, i messaggi, che il film ci fa cogliere tenendoci sospesi. Il film uscirà in sala a Palermo dal 6 maggio, poi nelle altre città. Distribuisce Dea Film.

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Il Fatto Quotidiano

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