Polonia, droni e bugie volanti e quella smania dell’UE di scatenare una guerra nucleare
- Postato il 13 settembre 2025
- Editoriale
- Di Paese Italia Press
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13 settembre 2025 – Se non fossimo in mezzo a una guerra che ha già fatto centinaia di migliaia di morti, verrebbe quasi da ridere. In Polonia piovono dal cielo una ventina di droni e Varsavia si affretta a gridare alla “provocazione russa”, evocando l’articolo 4 della NATO, cioè la consultazione urgente tra gli Stati membri ogni volta che uno di loro si sente minacciato. Una formula che fa tremare i polsi, perché porta la parola “escalation” direttamente nella sala da pranzo.
Ma qui non parliamo di bombardieri nucleari, bensì dei cosiddetti Gerbera, droni economici e inoffensivi, buoni per la ricognizione o come esche da abbattere. Non armati, non blindati, poco più che ferri volanti da esercitazione. Eppure, Varsavia ci racconta che questi giocattoli rappresentano una minaccia strategica.
Chi dice “provocazione russa” dovrebbe prima ascoltare il Ministero della Difesa di Mosca: i russi hanno negato ogni responsabilità, ricordando che la portata dei Gerbera non supera i 700 chilometri e che il loro obiettivo era, semmai, il territorio ucraino, non quello polacco. Una tesi verosimile, almeno quanto quella opposta.
E qui entra in scena Stephen Bryen, non un blogger qualunque, ma ex sottosegretario della Difesa Usa sotto Reagan, non proprio un propagandista di Putin, e oggi Senior Fellow del Center for Security Policy. Secondo lui, a dirottare i droni verso la Polonia potrebbero essere stati gli stessi ucraini, “involontariamente o volontariamente”. Ipotesi eretica, che però risponde a qualche domanda scomoda. Ipotesi che, invece di essere valutata, viene subito derubricata a “teoria scomoda”. Perché scomoda lo è: fa saltare il teatrino in cui i cattivi sono sempre e solo da una parte, e gli altri — Kiev e Varsavia in testa — sono i santi difensori dell’Occidente.
Non è la prima volta che succede. Già in passato la Polonia ha provato a giocare la carta della “provocazione russa”, salvo che poi la realtà si è incaricata di sgonfiare le bufale. Eppure Varsavia insiste, perché a ogni dramma annunciato segue lo stesso copione: più fondi, più armi, più presenze NATO sul territorio. Una sindrome da frontiera, in cui la Russophobia storica della Polonia si sposa con l’ossessione di contare nello scacchiere atlantico.
Se i droni non erano armati e non sorvolavano zone militari sensibili, perché tanto allarme? Se fosse stato un vero attacco russo, non si sarebbe usato un modello così economico, riconoscibile e vulnerabile. E allora l’ipotesi prende corpo: un incidente utile a presentare Kiev come vittima indiretta e Varsavia come scudo dell’Occidente, così da ottenere altri soldi, altre armi, altra copertura politica. Un boost diplomatico-militare, per usare il linguaggio degli addetti ai lavori.
Il problema è che questo gioco è pericoloso. Perché se fosse vera l’ipotesi Bryen, saremmo davanti a un classico casus belli costruito ad arte: provocare un incidente, agitare l’opinione pubblica, spingere la NATO a sentirsi “minacciata” e a rispondere. Esattamente lo schema di chi vuole inasprire il conflitto con Mosca a ogni costo, senza curarsi che dall’altra parte c’è una potenza nucleare con un arsenale superiore a quello di tre quarti d’Europa messa insieme.
E l’Ucraina, che avrebbe tutto l’interesse a mantenere alto il livello di allarme, non è nuova a simili tentazioni: ogni drone abbattuto, ogni missile che cade a ridosso di un confine, diventa l’occasione per chiedere più soldi, più armi, più sostegno politico. La Polonia si presta volentieri a fare da megafono, mentre la NATO finge di crederci, pur sapendo che la verità è più complessa.
Ma la verità, si sa, è la prima vittima della guerra. Qui non si tratta di droni, ma di percezioni manipolate: basta lanciare l’allarme, evocare Putin e urlare alla minaccia, ed ecco che il consenso a nuovi stanziamenti militari è servito. È il solito schema: Kiev provoca, Varsavia amplifica, la NATO ratifica.
E intanto l’Europa si trascina sempre più dentro un conflitto che non può vincere, appaltando a Polonia e Ucraina il ruolo di tamburi di guerra. Tamburi che suonano forte, ma che rischiano di coprire un dettaglio non trascurabile: la Russia, con le sue armi e i suoi uomini, non ha bisogno di venti droni sgangherati per annientare Varsavia.
La domanda resta: quanto ancora si giocherà con il fuoco, cercando di trasformare ogni incidente in un pretesto per una guerra totale? E quanto tempo passerà prima che un drone non più da discount, ma ben armato, provochi davvero quello che Varsavia e Kiev sembrano quasi augurarsi: l’irreparabile?
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