Piano strutturale di bilancio. Un percorso obbligato verso la stabilità, non la crescita. L’analisi di Zecchini

  • Postato il 2 ottobre 2024
  • Economia
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Con l’approvazione del Piano strutturale di bilancio il governo ha tracciato il percorso della finanza pubblica e di riflesso del quadro macroeconomico del Paese per il prossimo quinquennio, sino alla fine della legislatura. Un itinerario in buona parte obbligato dalle nuove regole del Patto di Stabilità, che segnano l’avvio di un rinnovato approccio alla governance dell’economia dell’area euro e al coordinamento delle politiche macroeconomiche degli Stati nel senso della stabilità finanziaria. Dopo la grande dilatazione dei disavanzi pubblici diretta a contrastare gli effetti recessivi della pandemia era inevitabile far rientrare i conti pubblici verso posizioni sostenibili nel medio periodo. La sfida sta nel ridurre stabilmente i disavanzi con la gradualità e le modalità necessarie per non spegnere la ritrovata crescita.

La complessa tessitura dei vincoli posti dalla governance europea su tutti i Paesi membri ha reso il compito particolarmente intricato e privo del sostegno di un contesto economico differenziato nel quadro comunitario. La grande maggioranza di paesi presenta importanti disavanzi pubblici e deve orientare i suoi piani verso lo stesso obiettivo, col risultato di rendere probabile una distorsione verso la bassa crescita dell’intera area per il resto del decennio. Né a compensarla è probabile che intervenga nel breve periodo un impulso dalla crescita dell’economia esterna, in quanto il panorama mondiale è segnato dagli sconvolgimenti prodotti da conflitti bellici, tendenze al protezionismo, tensioni tra le maggiori potenze e rapidi salti tecnologici nella digitalizzazione che spiazzano lavoro e capitale.

Il Piano risulta molto dettagliato, meticolosamente studiato nelle ipotesi assunte a base delle proiezioni, con dovizia di dettagli e simulazione dell’impatto sulle traiettorie delle variabili obiettivo stabilite dalle regole dell’Ue come parametri da rispettare. Questi si riassumono nei vincoli all’incremento medio annuo alla spesa primaria “netta” in funzione degli obiettivi: a) della correzione del disavanzo netto per riportarlo sotto il limite del 3% del Pil e farlo scendere verso l’1,5% nel medio periodo; b) del miglioramento del saldo primario “strutturale”; e c) della riduzione (di almeno 1% all’anno) dell’incidenza del debito pubblico in rapporto al Pil per porlo stabilmente su una traiettoria discendente.

Sono parametri complessi che intendono porre vincoli, ma lasciare alcuni margini di flessibilità entro il periodo. Il riferimento alla spesa “netta” tende a escludere le componenti meritorie di eccezione alla regola e la rilevanza data al carattere “strutturale” delle correzioni del disavanzo mira a ottenere miglioramenti stabili, che permettano di mantenere negli anni una sufficiente stabilità finanziaria anche in presenza di avverse fasi cicliche. La cadenza dei miglioramenti delle dinamiche dei deficit e del debito è altresì vincolata su ritmi prestabiliti, ritenuti sostenibili nel medio periodo. Si può pertanto affermare che la politica di bilancio negli anni futuri dovrà svolgersi entro i confini della sostenibilità finanziaria, con minori rischi di sfondamenti come quello recente dovuto al Superbonus.

Non tutto è predeterminato dalle regole e laddove lo sia, tocca i tassi di miglioramento medi del periodo settennale e non puntuali, né è quantificato in termini di livelli delle grandezze di bilancio, ma come rapporti col Pil. Il Piano italiano segue da vicino le traiettorie indicate dalla Commissione Ue nel giugno scorso, con qualche scostamento in alcuni anni, compensato negli altri. In particolare, l’incremento annuo della spesa primaria netta non è vincolato entro il limite del 1,5% del Pil indicato dalla Commissione, ma varia tra 1,3% e 1,9% col risultato medio prossimo all’1,5%. Lo scostamento riflette l’aggiornamento delle grandezze di base e risponde all’esigenza di realismo nella conduzione delle correzioni. Analogamente, diversamente dalla Commissione, è anticipato il rientro del disavanzo (indebitamento) netto sotto il 3% del Pil entro due anni, ovvero al 2,8% nel 2026, e la prosecuzione nel triennio successivo per toccare 1,8% nel 2029. Il disavanzo strutturale, invece, scenderebbe sotto il 3% soltanto nel 2028, mentre il saldo primario strutturale tornerebbe in positivo già dal 2025, per giungere al 2,2% nel 2029.

Lo sforzo maggiore di aggiustamento del deficit verrà fatto nel primo biennio per uscire dalla procedura di deficit eccessivo, mentre la correzione annua del saldo primario strutturale sarà stabile con una media dello 0,53% nel quinquennio considerato. Si può pertanto stimare che secondo i dati del Piano, la correzione nel 2025 sarebbe di circa 12 miliardi, a cui seguirebbero annualmente altre superiori ai 12 miliardi fino a raggiungere i 13,1 miliardi nel 2029. Il risultato in termini di evoluzione del rapporto debito/PIL sarebbe di un aumento dal 135,8% PIL del 2024 al 137,8% nel 2026 per poi scendere nel triennio successivo fino al 134,9% nel 2029. In breve, dopo 5 anni di correzioni l’incidenza del debito tornerebbe quasi al valore del 2023 (134,8%).

La validità del tracciato di aggiustamento dipende essenzialmente dal realismo delle ipotesi sulla crescita reale e su quella nominale per tener conto anche dell’inflazione, sulla dinamica del Pil potenziale, sulla stabilità (e non il ribasso) del tasso di remunerazione del debito, sull’andamento della produttività e degli investimenti fissi. Su ciascuna di queste variabili possono intervenire deviazioni dalle ipotesi, che potrebbero facilitare oppure rendere più gravoso il percorso delle correzioni. Con il richiamo al Pil potenziale si mantiene, come nel passato, quel margine di incertezza e di confronto con la Commissione sulla stima delle variabili sottostanti al calcolo, che sono il risultato di ipotesi e metodi sempre aperti a controversie. Nondimeno, per valutare l’esito del Piano va considerato che sebbene gli aggiustamenti dei saldi di bilancio siano impegnativi, la loro attuazione non impedisce che l’incidenza del debito pubblico continui a salire per un biennio, per riportarsi solo alla fine del quinquennio sulla posizione di partenza. Piegare la traiettoria del debito richiederà, quindi, una prolungata serie di aggiustamenti oltre la fine del Piano.

Lo scenario prefigurato, peraltro, ammette che l’aggiustamento di bilancio avverrebbe in un periodo di bassa crescita, contrassegnato da aumenti del Pil reale attorno all’1% nel prossimo biennio, seguiti da ritmi da zero virgola successivamente. D’altronde, quali sarebbero i fattori per una crescita reale più consistente? Escludendo il sostegno della congiuntura europea, i consumi interni e gli investimenti fissi sono assunti a motori principali, con un contributo nullo delle esportazioni al netto dell’import. La produttività e un ambiente reso più favorevole alle iniziative imprenditoriali insieme alle altre riforme di struttura dovrebbero fornire, secondo il governo, un impulso alle attività produttive maggiore del passato, al pari degli interventi realizzati nel quadro del Pnrr. Su questi fattori, tuttavia, alberga non poca incertezza che traspare in alcuni punti del Piano.

L’aumento della produttività del lavoro (Pil reale per occupato e per ora lavorata) oscilla tra zero e 0,2% nel corso degli anni, mentre quella multifattoriale, indice di avanzamento tecnologico e organizzativo, si muove tra 0,1% e 0,3 % annuo. I redditi da lavoro dipendente, peraltro, aumentano in misura significativa (tra 3,3% e 2,5%), frutto tra l’altro dell’incremento atteso dell’occupazione (da 0,5% a 0,1%). Il contributo più consistente all’espansione del Pil potenziale è atteso dagli investimenti, tra cui vanno inclusi quelli previsti dal Pnrr. Da questi ultimi le stime ufficiali si attendono un impulso del 2% annuo nel medio periodo rispetto all’andamento di base e dello 0,7% nel 2024, ma in realtà questi effetti tardano a manifestarsi.

Altre debolezze del Piano renderanno difficile coniugare aggiustamento e crescita. In specie, la riallocazione della spesa pubblica verso gli investimenti e il taglio delle spese a minore priorità avrebbero dovuto agevolare il riequilibrio delle finanze pubbliche e al contempo sostenere la crescita. Su entrambi i punti, invece, si rilevano carenze. La quota di spese pubbliche destinata agli investimenti rimane stabile negli anni di poco sopra il 3% del PIL ed è assente una revisione della spesa per concentrarla sulle componenti col maggiore impatto sul potenziale di crescita.

Nel Piano si ripone eccessiva fiducia nella capacità delle Riforme di stimolare la propensione ad investire, la partecipazione al lavoro, la competitività e la crescita. In realtà non appaiono produrre quello shock o, meno ambiziosamente, quell’ambiente economico necessario per ottenere questi risultati. La riforma della giustizia è rivolta all’efficientamento della macchina giudiziaria, mentre trascura l’esigenza di delegificare in numerosi campi rilevanti per le imprese.

Per migliorare l’ambiente operativo delle imprese si programmano una Legge quadro per le Pmi per sostenere la crescita dimensionale e la loro aggregazione, e una riforma del mercato dei capitali attraverso modifiche al Testo Unico sulla Finanza per migliorare l’architettura regolamentare e di supervisione. Stimolare il ricorso delle Pmi al capitale di rischio e la diversificazione delle fonti di finanziamento, richiederebbe anche incentivi alla capitalizzazione, agevolazioni al ricorso a strumenti alternativi al credito bancario e investimenti nella formazione finanziaria degli imprenditori. Uno stretto coordinamento con gli interventi finanziari degli enti territoriali è necessario, al pari di quello con i paesi dell’euro per realizzare l’auspicabile Capital Union.

La rimozione degli ostacoli alla concorrenza postula non semplicemente le nuove leggi programmate, ma interventi estesi nel settore dei servizi, particolarmente quelli pubblici, e un freno agli impedimenti frapposti dalle autonomie territoriali. Gli ostacoli da azzerare, infatti, provengono tanto dalle regolamentazioni quanto dagli interventi sul campo, se si intende ottenere effettivamente maggiore contendibilità nei settori.

La riforma della Pubblica Amministrazione ai diversi livelli di autorità dovrebbe rappresentare il punto centrale del sostegno allo sviluppo. Il Piano imposta l’azione sull’efficientamento, sull’investimento nelle nuove competenze del personale e sulla priorità da dare al merito. Si trascura, peraltro, l’importanza delle deregolamentazioni, della semplificazione delle procedure e soprattutto della loro ristrutturazione in chiave digitale per sfruttare pienamente i vantaggi della digitalizzazione. Andrebbero altresì enfatizzati il contenimento dei tempi delle procedure amministrative e il potenziamento del contrasto alla corruzione e alle pratiche similari.

Nei campi dell’innovazione, formazione del lavoro, dell’istruzione e della promozione della natalità ed inversione del declino demografico e innalzamento della partecipazione dei giovani e delle donne al mondo del lavoro sono programmate diverse azioni sulla stessa linea di quanto previsto nel Pnrr. Non tutte le direttrici d’intervento appaiono efficaci. Ad esempio, nel campo dell’istruzione si tarda a impostare le discipline matematiche, scientifiche e della digitalizzazione come fulcro dell’istruzione secondaria superiore in ogni ordine di indirizzo. Stimolare la partecipazione al lavoro richiederebbe una maggiore selettività nella destinazione delle misure assistenziali per legarle strettamente all’impiego lavorativo.

Naturalmente, benché si possa sempre disputare sulla bontà delle concrete riforme programmate, l’impressione complessiva sul Piano è che si tratta di un programma di aggiustamento finanziario credibile, che comporta molta perseveranza negli anni e che sollecita un impegno più forte nelle riforme per la crescita e lo sviluppo.

Autore
Formiche

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