Piano Blair per Gaza: sostituire Hamas senza nominarlo, con l’appoggio di USA e Arabia Saudita

  • Postato il 19 settembre 2025
  • Di Panorama
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È stato svelato quello che fino a pochi giorni fa circolava solo come indiscrezione diplomatica: la proposta di Tony Blair, ex primo ministro britannico ed ex inviato speciale in Medio Oriente, per disegnare il futuro della Striscia di Gaza dopo la guerra. Un piano che ha ricevuto il sostegno di Washington e che mira a sostituire l’attuale assetto della Striscia con una nuova entità amministrativa, la Gaza International Transitional Authority (GITA), concepita come autorità provvisoria con mandato internazionale.

Secondo quanto riportato da diverse testate, la GITA avrebbe il compito di garantire la sicurezza, gestire i servizi essenziali e avviare un percorso verso una governance palestinese riformata. Si tratterebbe dunque di un’amministrazione ponte, destinata a evitare il vuoto di potere dopo la guerra e a impedire che Gaza ricada in una spirale di anarchia e violenza, terreno fertile per nuove milizie. Il cuore del progetto ruota intorno al disarmo e alla smobilitazione dei combattenti attraverso un processo di tipo balcanico, modellato sulle esperienze degli anni ’90 nei Balcani, quando la comunità internazionale promosse programmi per raccogliere le armi delle milizie, sciogliere le brigate paramilitari e reinserire i combattenti nella vita civile. Blair vorrebbe replicare quel modello a Gaza, smontando gradualmente la macchina militare senza intraprendere una guerra di annientamento che rischierebbe di non avere mai fine. Un aspetto curioso, ma non casuale, è che nel documento non compare mai il nome di Hamas: si parla genericamente di “strutture armate” da smantellare e di una nuova autorità chiamata a gestire la transizione.

È un silenzio calcolato, utile a non irrigidire il fronte palestinese e a non ostacolare i negoziati sugli ostaggi, ma che per Israele rischia di apparire come un tentativo di salvare, almeno simbolicamente, l’organizzazione responsabile del massacro del 7 ottobre 2023. La proposta affronta anche la questione dei diritti di proprietà, stabilendo che chi dovesse lasciare Gaza per motivi di sicurezza manterrebbe la titolarità delle proprie abitazioni e la possibilità di rientrare. È un tentativo di disinnescare l’accusa di “nuova Nakba”, che accompagna qualsiasi ipotesi di evacuazione, e di offrire una garanzia formale ai civili palestinesi. Allo stesso tempo, il piano viene collegato al rilascio degli ostaggi e al cessate il fuoco: solo se sarà chiaro chi governerà Gaza e con quali garanzie si potrà trasformare una tregua temporanea in un accordo stabile.

Dietro le quinte, il ruolo di Jared Kushner è determinante. L’ex consigliere di Donald Trump, già architetto degli Accordi di Abramo, avrebbe incoraggiato Blair a elaborare una formula capace di incontrare il favore delle monarchie del Golfo e, almeno in parte, di Israele. Non sorprende che l’Arabia Saudita sia stata individuata come il vero perno della transizione: Riyadh non solo dispone delle risorse necessarie per finanziare la ricostruzione, ma può conferire al progetto una legittimità politica che altrimenti mancherebbe. Mohammed bin Salman, tuttavia, non investirebbe a cuor leggero: in cambio vuole garanzie su una prospettiva credibile di Stato palestinese e il consolidamento della partnership strategica con Washington. La logica di questo disegno è chiara: spostare l’asse della questione palestinese dal terreno militare a quello della diplomazia economica, offrendo un modello di “pace attraverso lo sviluppo”. Gaza verrebbe trasformata in un laboratorio di riconversione, in cui il cemento della ricostruzione dovrebbe sostituire le armi, mentre i fondi del Golfo garantirebbero salari, infrastrutture e opportunità economiche. Ma qui si nasconde il primo nodo analitico: la convinzione che un’iniezione di denaro e progetti possa cancellare decenni di conflitto, di ideologia e di appartenenza politico-religiosa. Le esperienze precedenti in Medio Oriente mostrano che l’economia può essere un fattore stabilizzante solo se inserita in un quadro politico credibile. Senza una prospettiva nazionale palestinese condivisa, il rischio è che la GITA diventi un’amministrazione puramente tecnica, tollerata finché arrivano i fondi, ma priva di legittimità reale.

Il secondo elemento critico riguarda Israele. Pur non avendo espresso una posizione ufficiale, è evidente che a Gerusalemme prevale lo scetticismo. L’assenza del nome di Hamas nel testo è vista come una forma di ambiguità diplomatica che rischia di indebolire la narrativa israeliana sulla necessità di estirpare il movimento islamista. Inoltre, Israele difficilmente accetterà di affidare la sicurezza delle proprie frontiere a un’autorità internazionale di nuova creazione: il controllo del contrabbando di armi dal Sinai e dal mare rimane una preoccupazione costante, e qualsiasi proposta che non preveda un ruolo diretto di Gerusalemme sarà respinta come inaffidabile.

A complicare il quadro vi è la questione dell’Autorità Nazionale Palestinese. Blair e i suoi sponsor vorrebbero che, in prospettiva, fosse proprio l’ANP a subentrare alla GITA, ma la debolezza cronica dell’amministrazione di Mahmoud Abbas la rende poco credibile. Agli occhi della popolazione di Gaza, un suo ritorno suonerebbe come un’imposizione dall’esterno, tanto più se orchestrata da Blair, Kushner e Riyadh. Qui si innesta il problema della legittimità: un’autorità transitoria calata dall’alto, priva di consenso popolare e legata a sponsor percepiti come troppo vicini a Israele, rischia di innescare nuove tensioni invece di placarle. In definitiva, il piano Blair-Kushner tenta di offrire una via d’uscita alla guerra senza affrontare di petto il nodo politico più spinoso: la rappresentanza palestinese. Se non verrà chiarito chi avrà titolo a governare Gaza dopo la fase transitoria, e con quale riconoscimento internazionale, il rischio è che la GITA resti un guscio amministrativo, destinato a crollare al primo scossone. La comunità internazionale potrà anche presentarla come una soluzione innovativa, ma senza il consenso della popolazione palestinese e senza risposte concrete alle esigenze di sicurezza israeliane, è probabile che rimanga un elegante esercizio diplomatico, utile a guadagnare tempo e titoli di giornale più che a costruire la pace.

Autore
Panorama

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