Perdersi per non perdere, la facile scelta dei partitini del centrosinistra

  • Postato il 1 novembre 2024
  • Di Il Foglio
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Perdersi per non perdere, la facile scelta dei partitini del centrosinistra

Al direttore - Commentando il voto in Liguria, uno dei più accreditati consiglieri del Pd ha scritto: “Il M5s vive una fase di grandi difficoltà e di incerta transizione. Speriamo tutti che anch’esso chiuda la parte della sua storia ormai esaurita e abbia l’energia di costruirne una nuova”. Non tutti, caro Goffredo Bettini. Perché c’è chi ha spiegato che “il partito di Conte non è di sinistra” (anche Travaglio qualche volta ci azzecca). E perché ci sono fior di studiosi i quali hanno spiegato che esso è l’erede più genuino del “Fronte dell’Uomo Qualunque”, padre di quell’antipolitica che ha caratterizzato la nostra vicenda nazionale. Ottant’anni fa, poco dopo la sua nascita, sia Palmiro Togliatti sia Benedetto Croce rifiutarono l’alleanza con il suo movimento proposta da Guglielmo Giannini. Avevano perfettamente capito di che pasta era fatto. Non per caso si estinse nel 1948. Forse la storia non è maestra di vita e ha sempre avuto pessimi allievi, come si dice, però spulciare ogni tanto tra le sue pagine non guasterebbe.
Michele Magno

La scelta dei vari partitini identitari del centrosinistra in fondo è facile. E’ una vecchia lezione di Arturo Parisi, storico ideologo dell’ulivismo. Perdere per non perdersi o perdersi per non perdere.


Al direttore - Dopo le recenti elezioni regionali in Liguria, qualcuno continua a sbandierare il “patteggiamento” dell’ex governatore Toti come una sorta di “moloch” mascarante. E’ ora di fare chiarezza, e ciò anche al di là delle legittime valutazioni di opportunità concreta che hanno indotto Toti a fare quel passo. Ora, va detto che la sentenza di patteggiamento non può essere considerata tecnicamente una sentenza di condanna. Oltre al fatto che – per legge – non fa stato nei giudizi civili e amministrativi conseguenti, c’è dell’altro. Uno dei migliori magistrati che abbiano mai calcato le scene del processo penale in Italia, il presidente Corrado Carnevale, detto volgarmente l’ammazzasentenze (ma al riguardo, consiglio ai “travaglini” italioti di leggere uno splendido libro “Un giudice solo” per farsi un’idea sera sull’argomento), affermò per l’appunto che la sentenza di patteggiamento non può essere considerata una sentenza di condanna, in quanto sottrae al giudice una cognizione “piena” della vicenda processuale. Insomma, è una sorta di rinunzia a quel giudizio – fatta per mera convenienza – che dovrebbe essere demandato a un giudice “terzo” rispetto alle tesi dell’accusa e della difesa. Questo è quanto, e niente altro.
Luigi la Marca


Al direttore - La vittoria di Marco Bucci in Liguria non è una sorpresa: è l’esito naturale di una politica basata sui veti, sul massimalismo e anche su una scarsa percezione delle reali esigenze dei liguri. Partiamo dal dato numerico: ad Andrea Orlando sono mancati i voti riformisti. Il solo Matteo Renzi alle europee ha raccolto 6.500 preferenze, io stessa 4.200 in una lista che ha raggiunto quasi il 4 per cento. Ma sarebbe sbagliato ridurre tutto a una pura questione matematica: con una coalizione così spostata a sinistra e il veto su Renzi, gli elettori moderati si sono trovati senza un punto di riferimento. La presenza di Italia viva avrebbe avuto una funzione di garanzia e credibilità su alcuni temi: infrastrutture, crescita, tutela della classe media. Di qui discende anche che il centro non può essere, come vorrebbero Bettini e soci, un’alchimia per cui uno vale l’altro: e infatti il risultato di Azione, fermo all’1,7 per cento, dimostra che le copie sbiadite non funzionano, che serve un brand fortemente riformista come quello di Italia viva. Senza il centro non si vince.  Basta guardare al centrodestra: Giorgia Meloni non si sognerebbe mai di mettere un veto su Tajani perché ha idee diverse sull’Europa, per esempio. Il no ai veti di Elly Schlein seguiva esattamente questo schema: solo uniti si vince. E non sarà con una puntata di “Report” che si impedirà a Giorgia Meloni di governare altri 5 anni ma solo elaborando un progetto credibile con al centro la crescita del paese. Insomma un progetto credibile di governo.
Raffaella Paita, senatrice di Italia viva
 

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Il Foglio

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