Perché Meloni deve scommettere sul premierato senza cambiare il Rosatellum
- Postato il 28 novembre 2025
- Di Il Foglio
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Perché Meloni deve scommettere sul premierato senza cambiare il Rosatellum
In qualsiasi competizione, le regole del gioco condizionano l’esito della partita. Attenzione però a immaginare automatismi che non esistono. I politici italiani dovrebbero saperlo: non è senz’altro l’unica ragione ma, ogni volta che una maggioranza si è scritta una legge elettorale su misura (la destra col Porcellum, il PD col Rosatellum) ha finito per farsi male da sé. Su queste ultime elezioni regionali, la destra avrebbe di che riflettere, senz’altro: vince dove ha ceto politico (il Veneto di Zaia), perde dove le sue candidature tradiscono la povertà dei partiti. Con le deduzioni per le prossime politiche, meglio andarci piano.
Cominciamo da quel che sappiamo. Nel 2022 il centrodestra fa il pieno dei collegi: alla Camera ne guadagna 121, contro i 23 di coloro che oggi fanno parte del cosiddetto “campo largo”. Questo avviene perché gli avversari sono divisi. E’ improbabile che ripetano lo stesso errore. Di qui l’ipotesi che regge il teorema del necessario cambio della legge elettorale: votando col medesimo sistema, il centrodestra non potrebbe riottenere l’ampia maggioranza di cui gode.
La tesi è che si debbano superare i collegi elettorali maggioritari, dove risiederebbe il problema, per passare a un proporzionale con premio di maggioranza. La discussione pare essere solo se il premio debba scattare al 40 o al 42 per cento, e se il nome del candidato premier di ciascuna coalizione debba stare sulla scheda o sul programma elettorale.
L’Istituto Cattaneo ha pubblicato (con tutti i caveat del caso) una stima di quello che sarebbe il risultato nei collegi uninominali sulla base delle ultime regionali, ove il centrosinistra (da Renzi a Fratoianni) si presentasse unito; il vantaggio ottenuto dal centrodestra nel 2022 si ridurrebbe drasticamente, da 89 a 34 seggi. Nondimeno, sarebbe pur sempre in grado di compensare lo svantaggio in termini di eletti che allora registrò nella quota proporzionale rispetto alla somma delle liste, divise, degli avversari (-16).
Ciò immaginando che la distribuzione del voto proporzionale rimanga la stessa del 2022. Come voteranno gli italiani fra due anni è impossibile dirlo ora. Se però le elezioni fossero oggi, si direbbe che la coalizione guidata da Giorgia Meloni forse ha guadagnato e non perso consensi. Solo a titolo di esempio, nelle ultime regionali, il centrodestra ha ottenuto una percentuale di voti in crescita rispetto al 2022 in due regioni su tre (il centrosinistra nell’altra). Dunque: allo stato delle cose, se le elezioni si tenessero con la legge elettorale attuale, e il centrosinistra si presentasse unito, il centrodestra non potrebbe certamente ambire all'ampia maggioranza di cui gode nel Parlamento attuale, ma sarebbe con ogni probabilità ancora in grado di garantire la fiducia al proprio governo. La legge elettorale alternativa di cui si parla avrebbe un esito decisamente più incerto: nel 2022, nel voto proporzionale Fdi, Lega e Fi presero meno voti di quel che oggi sarebbe il campo largo: 114 deputati vs 130. Perché Meloni dovrebbe lasciare una legge elettorale che le dà una probabile vittoria, anche se non con l’amplissimo margine del 2022, per sceglierne una che la condurrebbe a una probabile sconfitta? Difficile poi immaginare che una legge di impianto proporzionale possa non riproporre il voto di preferenza. Tutti i partiti ne hanno nostalgia. Però, se un movimento ha scarso ceto politico e un radicamento territoriale modesto, le preferenze non possono avvantaggiarlo: ed è precisamente il caso di Fratelli d’Italia. Che sconterebbe la maggiore riconoscibilità locale degli esponenti della Lega al Nord e di Forza Italia al Sud.
I commentatori danno per scontato che il ritorno al proporzionale sia già scritto. Ma perché Giorgia Meloni dovrebbe accettare di dirigersi verso un sistema che sfavorisce la sua coalizione e, all’interno di essa, il suo partito? Meloni ha due problemi. Primo, la grande cautela con cui si è mossa, in questa legislatura, è stata spesso giustificata dalla promessa di accelerare nella prossima. E’ chiaro che la prospettiva di una maggioranza più risicata non aiuta. Secondo, sin qui ha cercato di procrastinare ogni tentativo di dotare Fratelli d’Italia di un ceto politico all’altezza del consenso di cui gode. Forse non si può più rimandare. La premier può sparigliare solo in un modo. Portando la competizione sull’unico terreno in cui non ha concorrenti. Agendo sì sulle regole del gioco, ma per fare in modo che la domanda alla quale l’elettore deve rispondere non sia: qual è il partito per cui parteggi, bensì: chi è la personalità che desideri sia presidente del Consiglio. Togliendo dal congelatore il progetto di elezione diretta del premier, Meloni prenderebbe due piccioni con una fava. Creerebbe le condizioni più opportune per proseguire col suo progetto politico. E compirebbe la promessa della triade di riforme premierato-autonomia-separazione delle carriere: chiudere finalmente il cerchio della seconda repubblica.
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