Perché l’era di Trump è destinata a durare ancora a lungo. L’analisi del prof. Palano
- Postato il 13 novembre 2024
- Esteri
- Di Formiche
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Quando Donald Trump, ormai quasi dieci anni fa, annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti, i suoi sfidanti e molti degli osservatori più noti – per non dire tutti – lo accolsero come una manifestazione di puro folclore politico, un outsider dallo stile caricaturale, una sorta di presuntuoso clown in cerca di pubblicità. Trump era il miliardario dell’intrattenimento, il protagonista di un fortunato reality show, il proprietario di chiassosi hotel di lusso. E, dunque, quanto di più distante dalla politica americana e globale si potesse immaginare. Eppure, quella che sembrò ai più solo una bizzarra parentesi nella storia degli Stati Uniti si sarebbe rivelata come l’inizio di una trasformazione profonda.
A distanza di otto anni dalla sorprendente (e per molti versi scioccante) vittoria del 2016, e dopo quattro anni dall’assalto a Capitol Hill, Donald Trump torna a varcare per la seconda volta le porte della Casa Bianca. E un successo tanto eclatante come quello certificato alle urne dimostra una volta di più che la sua avventura politica non può essere considerata come una parentesi. Che lo si apprezzi o lo si detesti, è infatti necessario ammettere che Donald Trump ha trasformato il modo di fare politica e i temi del dibattito, lasciando un segno indelebile in tre aree chiave: l’organizzazione dei consensi attraverso i social media, l’uso del linguaggio del risentimento come strumento di costruzione identitaria e una rivoluzione in campo economico e politico che rompe esplicitamente con i principi dell’ordine internazionale liberale.
Il primo dei cambiamenti dirompenti introdotti (o, meglio, sfruttati più efficacemente) da Trump ha a che vedere con l’utilizzo spregiudicato dei social media come strumento di mobilitazione politica. Se Barack Obama era stato probabilmente il primo a comprendere il valore strategico dei social per la costruzione di una base elettorale, Trump ha portato il loro utilizzo a un livello nuovo, rendendoli innanzitutto un’arma di coinvolgimento quotidiano, di polarizzazione e mobilitazione di massa, e in secondo luogo un mezzo con cui scalare e rimodellare il Partito Repubblicano.
Otto anni fa la candidatura di Trump fu radicalmente osteggiata dall’establishment del GOP, ma, utilizzando Twitter come strumento privilegiato e rivolgendosi direttamente ai suoi elettori con un linguaggio quantomeno elementare, il tycoon newyorkese riuscì ad aggirare i filtri della stampa tradizionale, a travolgere le barriere del ceto politico e a conquistare la nomination. Oggi il Partito Repubblicano appare in larga parte “trumpizzato”, sotto il profilo dei temi e dello stile di comunicazione. E l’ingresso in scena di Elon Musk ha trasformato X in un megafono potenziato per un leader che, anche dopo la sconfitta del 2020 e la successiva tempesta giudiziaria, ha sempre conservato un rapporto quasi ipnotico con milioni di elettori.
La seconda trasformazione introdotta da Trump riguarda invece la sua capacità di mutare il risentimento in capitale politico. La retorica trumpiana ha risvegliato il malcontento che fermentava nella società americana, specialmente nelle aree rurali e post-industriali degli Stati Uniti, dove le conseguenze della globalizzazione erano state percepite come causa di impoverimento, degrado e declino. Trump offrì a questo “popolo dimenticato” – in realtà composto da tanti segmenti differenti – di nemici comuni contro cui scagliarsi: l’élite globale, l’establishment corrotto, le fake news della stampa, gli intellettuali radicali, i migranti, la Cina, e così via. Il linguaggio crudo dei suoi comizi e dei suoi tweet ha contribuito a polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica, accelerando un processo che aveva preso origine in realtà molto prima, ma ha anche dato voce a molti cittadini che – a torto o a ragione – si sentivano traditi dalle istituzioni. La sua retorica ha capitalizzato il risentimento e l’ha elevato a motore politico, trasformando i cittadini arrabbiati e sfiduciati in un elettorato agguerrito e fedele. Spesso violando ogni precedente norma (scritta e non scritta) di correttezza politica, Trump ha condotto il senso di appartenenza identitaria dell’“America First” a un livello ovviamente divisivo, ma capace di rappresentare una potente forma di identificazione collettiva. Con Trump, la politica americana – in cui per lungo tempo le differenze tra candidati democratici e repubblicani sembravano quasi impercettibili, almeno in ordine alle grandi direttrici del paese – si è trasformata sempre di più in una guerra tra “noi” e “loro”. E la diffusione del “trumpismo” come fenomeno globale – una tendenza che ha visto nascere leader come Bolsonaro, Duterte e Milei – ha dimostrato come la costruzione delle identità politiche nel XXI secolo sia destinata a passare sempre più spesso dalla capitalizzazione del rancore, della frustrazione e della diffidenza verso le élite.
L’ulteriore grande trasformazione introdotta da Trump ha infine coinvolto l’edificio dell’ordine internazionale liberale. Un assetto che già in precedenza aveva mostrato crepe evidenti, che la crisi globale del 2008 aveva contribuito ad allargare. Giunto alla Casa Bianca, Trump iniziò però a svellere con molta più energia di ogni suo predecessore i pilastri dell’edificio, adottando una politica esplicitamente nazionalista che anteponeva gli interessi statunitensi a quelli globali. Inalberando il vessillo dell’“America First”, mise così in discussione il multilateralismo, avviò guerre commerciali (non solo contro la Cina) e minò l’autorità di organizzazioni internazionali come la Nato e l’Oms. Rompendo con le ambizioni imperiali del momento unipolare e consegnando al passato la vocazione di “poliziotto del mondo”, E diede avvio a una stagione di “neo-nazionalismo” economico, che le difficoltà del post-Covid e le tensioni internazionali avrebbero ulteriormente consolidato.
Non sappiamo ancora in quali direzioni si muoverà la nuova presidenza Trump. Molto probabilmente le guerre commerciali torneranno a essere una priorità e il contrasto all’immigrazione clandestina verrà rafforzato da qualche misura clamorosa. Sulle scelte di politica estera – in primo luogo, su Ucraina e Palestina – formulare previsioni è invece davvero difficile. Per quanto ciò che ci attende sia ancora avvolto nella nebbia, è possibile riconoscere fin d’ora che – piaccia o non piaccia – gli anni che stiamo vivendo saranno ricordati come l’era di Trump. Con la sua irruzione sulla scena, Trump ha rivelato le fragilità e i limiti della democrazia americana, imponendo un modo di fare politica che ha profondamente influenzato l’opinione pubblica e le istituzioni, mettendone forse persino a rischio la tenuta. Ma l’era di Trump non è solo la stagione di un leader che nessuno dieci anni fa avrebbe neppure lontanamente immaginato al vertice della superpotenza globale. È anche una stagione segnata da una strategia capace di penetrare nelle «bolle» individualizzate in cui si è scomposta l’opinione pubblica, di mobilitare il risentimento e di farne una travolgente forza identitaria. Ed è una stagione che ha segnato una rottura esplicita, dichiarata ed esibita dei principi dell’ordine internazionale liberale.
Possiamo dolerci di queste trasformazioni e degli effetti che esse producono, non solo in America. Ma di questi mutamenti – piaccia o non piaccia – dobbiamo prendere atto. E dobbiamo forse anche prendere sul serio l’ipotesi che l’era di Trump – cominciata quasi per caso otto anni fa – sia destinata a durare ancora a lungo.
L’editoriale di Damiano Palano pubblicato sull’ultimo numero della newsletter Polidemos interamente dedicato alle elezioni presidenziali americane