Perché la crisi in Libia non può essere ignorata. Conversazione con Varvelli
- Postato il 16 maggio 2025
- Esteri
- Di Formiche
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La recente uccisione del potente comandante miliziano Abdel Ghani al-Kikli, noto come “Ghnewa”, ha riacceso le tensioni a Tripoli, segnando un’escalation significativa nella fragile architettura di sicurezza libica. Più che un episodio isolato, l’agguato avvenuto nel campo militare di Tikbali appare come un passaggio decisivo nella nuova battaglia per il potere in Libia, con implicazioni regionali dirette anche per l’Italia e l’Europa.
Subito dopo l’eliminazione di al-Kikli, il Governo di Unità Nazionale (Gnu) ha annunciato di aver preso il controllo completo del distretto di Abu Salim, roccaforte storica del leader miliziano, e successivamente di tutte le sedi operative dello Stability Support Apparatus (Ssa), la sua formazione paramilitare. Il primo ministro Abdulhamid Dbeibah ha celebrato l’operazione definendola “un passo decisivo verso l’eliminazione dei gruppi irregolari” e il rafforzamento del principio secondo cui “non c’è posto in Libia se non per le istituzioni statali”.
Dietro la retorica istituzionale, si delinea però una partita molto più complessa. Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio Ecfr di Roma, invita a leggere la crisi attuale come il prodotto di un deterioramento strutturale della governance libica, favorito anche da un disinteresse internazionale: “La Comunità internazionale ha scelto di non toccare nulla, sperando che le cose si sistemassero da sole, purché continuasse il flusso di energia e venissero fermati i migranti. Ma i problemi, se non li affronti, prima o poi ti vengono a cercare”.
Per Varvelli, un passaggio cruciale è stato il coinvolgimento delle istituzioni finanziarie, come la Banca centrale e la National Oil Corporation (Noc), in lotte di potere che le hanno rese vulnerabili a interferenze politiche e a sostituzioni ai vertici. “Quelle istituzioni erano rimaste a lungo protette dal conflitto interno. Quando anche loro sono state tirate dentro, era chiaro che il sistema si stava sgretolando”.
La morte di al-Kikli, spiegano Dario Cristiani (German Marshall Fund) e Karim Mezran (Atlantic Council), deve essere letta come parte di una strategia di Dbeibah per centralizzare il controllo della sicurezza, eliminando i vecchi signori della guerra tripolitani e affidandosi a forze più fedeli, come la Brigata 444 e la Brigata 111, guidate rispettivamente da Mahmoud Hamza e Abdussalam al-Zoubi. È con loro che il primo ministro tenta ora di costruire una nuova architettura del potere armato nella capitale.
Ma il progetto di verticalizzazione del potere, osserva ancora Varvelli, è tutt’altro che lineare: “Dbeibah sta cercando di imporre una leadership più forte, più centralizzata, e forse anche più violenta. Ma non è detto che ci riesca. Altri gruppi, come le Forze di Deterrenza Speciale di Abdelraouf Kara, potrebbero resistere. E se ciò accade, il rischio è una nuova esplosione di polarizzazione e violenza”.
I primi segnali ci sono già: dopo l’uccisione di al-Kikli, la Brigata 444 ha attaccato le Sdf di Kara, scatenando scontri violenti. Kara guida un gruppo salafita madkhalita, ideologicamente coeso e ben strutturato, che ha già dimostrato una notevole capacità di resistenza. A differenza delle Ssa — più simili a organizzazioni criminali locali — le Sdf hanno radicamento, disciplina e il potenziale per attirare sostegno da altre fazioni ostili a Dbeibah, comprese alcune provenienti da Zawiya e Warshefana.
In questo scenario, la vittoria tattica su al-Kikli potrebbe rivelarsi un boomerang. Se da un lato consente a Dbeibah di rafforzare il suo controllo militare, dall’altro rafforza anche figure come Hamza, che negli ultimi mesi ha elevato il proprio profilo internazionale con missioni in Turchia, Algeria e persino Siria. “Se il rafforzamento di Hamza diventa eccessivo”, avverte Varvelli, “potremmo trovarci di fronte a un nuovo attore dominante, con una forza militare propria e ambizioni politiche autonome. E questo potrebbe aprire un altro fronte di instabilità”.
Anche per questo la tensione a Tripoli non può essere ignorata. L’ambasciata italiana in Libia ha fatto sapere di essere pienamente operativa, pur mantenendo chiusi gli uffici al pubblico, mentre le principali ambasciate occidentali — Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti — hanno lanciato un appello congiunto per il rispetto del cessate il fuoco. L’Unsmil ha definito “profondamente allarmante” la violenza nelle aree densamente popolate della capitale e ha chiesto una tregua immediata e incondizionata.
La stabilizzazione della Libia rimane dunque un obiettivo cruciale non solo per la sicurezza regionale, ma anche per gli interessi strategici italiani, che si intrecciano con il controllo delle rotte migratorie, la sicurezza energetica e la gestione dell’influenza esterna sul fianco sud dell’Europa. In particolare, cresce il timore che le tensioni interne possano essere sfruttate da attori esterni come la Russia, che ha già utilizzato la Libia come leva per espandere la propria influenza in Africa e destabilizzare gli equilibri nel Mediterraneo centrale.
Il bivio è chiaro: o Tripoli riesce a consolidare un nuovo ordine sotto l’ombrello statale, oppure l’instabilità rischia di degenerare in un nuovo ciclo di frammentazione e conflitto, con conseguenze che travalicano i confini della Tripolitania, spiega Varvelli, osservando anche i movimenti del capo miliziano dell’Est, Khalifa Haftar. E qui, considerando l’acquartieramento turco nelle postazioni occidentali e quello russo dietro alla milizia famigliare haftariana, il rischio è un’espansione oltre i confini libici.