Perché il mini taglio Irpef è un’illusione: l’aiuto al “ceto medio” restituisce solo briciole del salasso fiscale dovuto all’inflazione
- Postato il 17 ottobre 2025
- Economia
- Di Il Fatto Quotidiano
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A leggere la raffica di dichiarazioni trionfalistiche sul “taglio dell’Irpef al ceto medio” arrivate in queste ore da molti esponenti di maggioranza, il contribuente medio potrebbe essersi convinto che l’anno prossimo lo attendano finalmente buste paga più pesanti. La realtà è un po’ diversa. Per riassumere, chi guadagna 40mila euro l’anno si potrà permettere una pizza in più al mese e chi ne prende 55mila avrà ben 36,6 euro in più mensili da spendere a piacimento. Ma il contentino che verrà inserito nella legge di Bilancio arriva dopo che, tra 2022 e 2024, tutti i lavoratori dipendenti con imponibile sopra i 35mila euro hanno subìto per effetto della maxi inflazione degli scorsi anni un salasso fiscale pesantissimo. Che l’intervento annunciato dal governo è ben lontano dal compensare. “Due punti in meno di Irpef di certo non sono sufficienti”, conferma Massimo Bordignon, vicepresidente esecutivo dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica. “Serve una qualche forma di restituzione di quella che è una tassa implicita che migliora i conti pubblici e di cui la gente non si accorge”.
Ripartiamo dall’inizio. Il Documento programmatico di bilancio appena inviato alla Commissione Ue cita la riduzione della seconda aliquota Irpef dal 35 al 33% come misura principe di una manovra da soli 18 miliardi complessivi, che ne fanno la meno ambiziosa da un decennio. “Prosegue il percorso di riduzione della tassazione sui redditi da lavoro che il governo sta portando avanti dall’inizio della legislatura”, recita il testo firmato da Giancarlo Giorgetti. In attesa del testo del disegno di legge di Bilancio vero e proprio, il Dpb che ne è la cornice stima il costo in 2,8 miliardi l’anno nel triennio 2025-2025 (resta da capire se la misura verrà poi resa strutturale). I benefici saranno di una quarantina di euro l’anno per chi ne prende 30mila fino ad arrivare a 440 euro l’anno nel caso l’imponibile sia sopra i 50mila. Ecco: l’aumento della pressione fiscale che negli ultimi anni ha colpito il tanto corteggiato “ceto medio” vale molto, molto di più.
Quantificare la cifra esatta non è semplice perché quei numeri non compaiono in alcun documento ufficiale del governo. Ma diversi economisti si esercitano da mesi sull’argomento. Il cuore del problema è il cosiddetto drenaggio fiscale, cioè l’aumento della quota di reddito da versare allo Stato che si verifica, anche a parità di reddito reale, quando i prezzi salgono molto e gli scaglioni Irpef non sono indicizzati all’inflazione. In pratica, il sistema continua tassare i redditi nello stesso modo senza tener conto della riduzione nel loro potere d’acquisto. Il risultato è che – senza che sia necessario approvare alcuna legge che preveda maggiori tasse – l’erario incassa di più.
Ecco: Marco Leonardi, ordinario di Economia all’università Statale di Milano, e Leonzio Rizzo, ordinario all’ateneo di Ferrara, hanno calcolato che tra 2022 e 2024 si è cumulato un drenaggio fiscale pari a 25 miliardi. Si tratta sia di soldi in più pagati da chi, per effetto di un rinnovo del contratto nazionale di categoria, ha ricevuto un aumento di stipendio e si è visto “mangiare” dal fisco il potenziale miglioramento della propria capacità di spesa, sia di tasse invariate versate però da contribuenti che a causa dell’inflazione si sono ritrovati di fatto più poveri.
Cifre corroborate dall’Ufficio parlamentare di bilancio, che nel suo ultimo Rapporto sulla politica di bilancio quantifica in 2,89 il drenaggio fiscale del 2022 se l’inflazione si fosse fermata al 2%. Considerando il tasso di inflazione reale, che tra 2022 e 2023 è stato a livello cumulato di oltre il 14%, sul triennio 2022-2024 si può calcolare un drenaggio di almeno 21 miliardi. Per i contribuenti con redditi più bassi il taglio dei contributi pensionistici avviato dal governo Draghi e confermato da Meloni, che l’ha reso strutturale trasformandolo in un bonus fiscale e in più ha varato una riduzione degli scaglioni da quattro a tre e una revisione delle detrazioni, ha più che compensato la perdita, pur creando altre distorsioni. Per i redditi sopra i 35mila euro è successo il contrario.
Bordignon, ordinario di Scienza delle Finanze alla Cattolica, insieme a Rizzo ha spiegato questa settimana su lavoce.info che la maggior pressione fiscale del 2024 rispetto all’anno prima equivale per lo Stato a 26 miliardi di entrate in più. Sette sono dovuti al rimbalzo delle accise dopo l’eliminazione dei bonus contro il caro energia, il resto dipende dal fatto che i redditi da lavoro dipendente sono tassati molto più degli altri (per cui quando crescono i salari il gettito sale più del pil) e che i maggiori redditi ottenuti dai lavoratori dipendenti nel 2024 sono stati tassati ad aliquote medie più elevate rispetto al 2023. Insieme a Davide Cipullo, ricercatore dello stesso ateneo, Bordignon la scorsa estate aveva tentato anche un altro esercizio: stimare di quanto è variato il carico tributario sul reddito di alcuni contribuenti tipo, tenendo conto delle modifiche a scaglioni e aliquote, dello choc inflazionistico ma anche delle addizionali Irpef scelte in autonomia da Regioni e Comuni.
I risultati? “Impressionanti“, scrivono i due accademici. “Tenendo conto dell’inflazione e delle variazioni nelle addizionali, i vantaggi delle riforme sono annullati per tutti i livelli di reddito, eccetto che per quello più basso, dove comunque i vantaggi sono ridotti a poche centinaia di euro all’anno”. Qualche esempio? Un napoletano con imponibile di 55.000 euro paga quasi 4.000 euro in più in termini reali nel 2025 rispetto al 2021, un fiorentino o un romano quasi 3.500 euro in più, un milanese poco meno di 3mila. E anche per redditi di 33.000 euro l’effetto complessivo è negativo, con un aggravio di imposta di centinaia di euro.
Non serve altro per capire come la mancetta in arrivo con la manovra sia la restituzione di una piccola parte dei passati aggravi. “C’è stato uno choc forte e il governo dovrebbe fare qualcosa”, chiude Bordignon. “Forse indicizzare per il futuro le aliquote nominali e le detrazioni all’inflazione non è fattibile, ma due punti in meno di Irpef e l’incentivo fiscale al rinnovo dei contratti non bastano”. Per ora Palazzo Chigi e via XX Settembre fingono di non vedere. Anche se, stando al Documento programmatico di finanza pubblica, l’aumento della pressione fiscale sta proseguendo anche quest’anno, quando il rapporto tra entrate fiscali e contributive e Pil nominale arriverà al 42,8%.
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