Pensioni, partorito il solito topolino. Jessoula: “Né slogan né allarmismi, ecco cosa dicono i dati dell’Italia”
- Postato il 17 ottobre 2025
- Politica
- Di Il Fatto Quotidiano
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Pubblichiamo un intervento di Matteo Jessoula, ordinario di Scienza Politica all’università degli Studi di Milano
È sorprendente come dibattito e pratiche sulle pensioni rimangano immutate nei decenni, in un quadro costantemente polarizzato. Da un lato, le promesse di singoli partiti interessati a ricompensare il proprio elettorato: promesse legittime, sia chiaro, ma spesso rivolte a (più o meno micro-) constituencies relativamente non svantaggiate (il caso di Quota 100 su tutti). Dall’altro, autorevoli commentatori che lanciano il grido dall’allarme circa le “drammatiche conseguenze” sul debito pubblico di possibili misure espansive quali la recente promessa di congelamento dell’età pensionabile a fine 2026. Non manca mai, immutabile anch’esso, l’osservatore straniero, questa volta un articolo sul Financial Times, prontamente rilanciato dalla stampa nazionale, che punta il dito: se l’Italia interviene sull’età pensionabile va “controtendenza” rispetto ai principali paesi europei, Germania e Francia in primis, indebolendo la sostenibilità fiscale del sistema e mettendo a repentaglio la credibilità sui mercati finanziari. Risultato: a meno di improbabili sorprese dell’ultima ora, anche quest’anno la montagna delle pensioni partorirà il topolino, cioè l’ennesimo aggiustamento al margine delle regole di accesso al pensionamento.
Non abbiamo bisogno di promesse incompiute e allarmismi: serve una riflessione profonda, ancorata ai dati. Le severe riforme “organiche” della fase 1992-2011 hanno infatti trasformato completamente lo scenario, con risultati importanti e nuovi problemi per i quali bisogna mettere a punto soluzioni nuove, efficaci, efficienti e soprattutto eque. L’Italia non è la Francia e nemmeno la Germania. L’innalzamento dell’età pensionabile è stato importante, 12 anni per le donne, 7 per gli uomini dal 1994 – a fronte di un aumento dell’aspettativa di vita a 65 anni di 2,8 anni nel periodo – fino a toccare l’attuale soglia di 67 anni, che la Germania raggiungerà solo nel 2029, mentre la Francia è ferma a 62 anni e 6 mesi. Anche l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro è tra le più elevate: 64,2 anni (2023), contro una media UE di 63,6 anni, in linea con la Germania (64,4) e ben sopra la Francia (62,4). I dati mostrano inoltre come l’Italia sia tra i paesi con la più bassa quota di pensionati nella fascia d’età 50-54 anni (3,3% contro 9,5% e 9,3% in Germania e Francia), oltre che nella fascia 55-59 anni (7,7% vs 11,9% Germania e 14,2% Francia) e anche 60-64 anni (32,2% Italia vs 34,5% Germania, addirittura 55,4% Francia). I bassi tassi di occupazione italiani nella fascia 50-74 anni (46,6%) e nella fascia 60-64 anni (47,2%) – contro 49,9% e 52% nell’UE – non sono ascrivibili, come in passato, al facile accesso al pensionamento anticipato, bensì alla ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro già nella fascia 35-54 anni dove esiste ancora un differenziale di 14 punti percentuali rispetto all’UE: di conseguenza, mentre il tasso di occupazione maschile 50-74 anni è allineato alla media UE (55,7% vs 55,5%), quello femminile rimane ampiamente sotto la media (38,1% vs 44,7%).
Le riforme hanno dunque ristretto i canali di accesso alla pensione, con risultati significativi sull’età di uscita dal mercato del lavoro e l’occupazione dei lavoratori anziani. Elementi più critici si registrano però sulla composizione dell’occupazione: l’Italia è il paese europeo con la più alta quota di lavoratori 55-64 anni sul totale – ben il 23,3% (media UE 19,6%, Francia 17,7%, Germania 22,8%) – e una ridottissima quota di giovani 20-24 anni – 4,6% contro 8,4% in Francia e 7,6% in Germania. Gli over-50 costituiscono oggi più del 40% degli occupati – +20 punti percentuali dal 2004 – mentre è divenuta marginale la fascia degli occupati 15-34 anni (solo il 20% del totale) e ha perso terreno (-10 punti percentuali) anche il gruppo degli adulti 35-49 anni. Se Confindustria è consapevole dell’impatto negativo su efficienza, produttività e crescita economica – specie nello scenario delle transizioni verde e digitale – di una struttura occupazionale così sbilanciata verso la componente anziana – destinata ad espandersi significativamente nel prossimo decennio -, i sindacati sono giustamente preoccupati per gli effetti regressivi dell’età elevata di accesso alla pensione, alla luce degli importanti differenziali nelle aspettative di vita tra lavoratori con diverso livello socioeconomico e percorsi di carriera più o meno gravosi.
Smaltita la Manovra, il governo Meloni – che a più riprese ha promesso una riforma organica delle pensioni – dovrebbe perciò convocare le parti sociali e nominare una commissione ad hoc con l’obiettivo, da un lato, di individuare misure strutturali per il pensionamento flessibile; dall’altro di affrontare l’annosa questione del livello delle pensioni future. Ove questo non dovesse accadere, le forze di opposizione dovrebbero cogliere l’opportunità, avviando un confronto approfondito con le organizzazioni sindacali e datoriali: dopotutto, le elezioni 2027 iniziano a vedersi all’orizzonte. I margini di manovra sono stretti, ma ci sono. L’Italia ha ancora la spesa pensionistica lorda più elevata d’Europa (15,7% del PIL), ma la spesa netta scende al 12,5% del PIL – inferiore a Grecia e proprio alla Francia; soprattutto bisogna iniziare a riflettere su come espandere la base di finanziamento puntando su misure che non incidano negativamente sui fattori della produzione (prelievo sulla rendita accanto ai contributi sociali).
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