Paura della libertà
- Postato il 17 dicembre 2025
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- Di Il Vostro Giornale
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“Il nazismo (e il fascismo, suo corrotto e compromesso equivalente nostrano) fu uno scoppio di forze irrazionali, in un mondo troppo meccanizzato. Il suo motivo fondamentale fu la paura elementare, la paura dell’uomo, che è nell’uomo, la paura della libertà“. Sono parole scritte da Carlo Levi nel 1944 ma che riscoprono la propria attualità oggi quando, molto spesso con somma superficialità, si taccia di fascismo chiunque non corrisponda a un certo paradigma sclerotizzato fino all’anacronismo. Non sarebbe male ricordare il monito foscoliano, il suo “esortare alle storie”, rivisitandolo così da renderlo stimolo attuale, provocazione con le radici nella storia e lo sguardo verso il domani. Non è marginale interrogarsi sulle ragioni per le quali oramai oggi non si studia la storia. Pensiamo ai giovani studenti che faticano a leggere qualunque cosa, appare quasi un ossimoro concettuale eppure è una constatazione di fatto, come sperare di affascinarli con vicende lontane nel tempo se ciò che è l’altro ieri per loro è già un cadavere in via di putrefazione e, comunque, non li riguarda, è passato di moda dove la moda del momento è assurta a livello di cifra intellettuale ed esistenziale? Non sto colpevolizzando i giovani, chi mi legge da tempo sa bene che è ben diverso il mio approccio critico ma lo ribadisco per il contesto, gli stessi si sono trovati a “dover imparare ad usare il mondo che è stato dato loro”, che non hanno né scelto né costruito. Poi si vedono criticati, accusati di superficialità e ignoranza da quella generazione che su questi pilastri ha edificato un apparato valoriale che misurava l’individuo dalle sue capacità di mercato. Mi rendo conto di effettuare una sintesi estrema e generalizzante ma fido sull’intelligenza del lettore che non cada nell’ovvietà del “non siamo tutti così”.
“Dopo un secolo di «progresso», una stanchezza mortale si impadronì degli uomini […]. La libertà parve realmente ritrarsi dalla vita europea, imbarbarita o isterilita. Il concetto di popolo, che è infinita differenziazione creativa, si mutò in quello di massa, che è primitiva indistinzione passiva”; sempre Carlo Levi. La storia non si ripete mai identica a se stessa sia perché mutano i contesti sia perché la storia è fondamentalmente ricerca e interpretazione, cambiando gli storici è quasi impossibile pretendere di garantire sia la staticità di quanto affermato sia il pensiero su quanto si sta analizzando, lasciamo a margine considerazioni sulla miopia o il presbitismo degli storici, proviamo, sempre con somma modestia, ad assumerci la responsabilità di una riflessione che non pretende verità ma che prova a celebrare la libertà di un pensiero altro. Quanto è attuale l’affermazione di Carlo Levi? Non dimentichiamo che questo pensiero affonda le proprie ragioni in un suo breve scritto del 1939, Paura della libertà, nel quale riteneva giunto il momento di “fare il punto” su una cultura travolta dalla tragedia delle dittature e affermava di sapersi “In quel punto della vita dove non si può più guardare indietro“ e, proprio per quella ragione “Se il passato era morto, il presente incerto e terribile, il futuro misterioso” diveniva imprescindibile la scelta di riappropriarsi della responsabilità. Mi sembrano illuminanti le parole dell’amico Gershom Freeman “Cancelliamo la colpa e ripristiniamo la responsabilità” che forse è opportuno esplicitare: la colpa è, troppo spesso, la zavorra della quale ci grava chi pretende di essere “giudice in terra del bene e del male”; il freno che tarpa le ali al libero pensiero individuale, per dirla con Levi, è paura della libertà; la responsabilità è il coraggio di muoversi fuori dal luogo comune e magari sbagliare ma, altrettanto sarà possibile, regalandosi un’occasione di esistere davvero. Per tornare al breve testo di Levi, credo che la sintesi estrema del suo pensiero sia riconoscibile nella sua convinzione che la paura della libertà sia stata, e io aggiungo è tuttora, la ragione del nascere del fascismo. Sono potenti le sue righe: “Per chi ha l’animo di un servo, la sola pace, la sola felicità è nell’avere un padrone e nulla è più faticoso e veramente spaventoso dell’esercizio della libertà”.
Oggi il termine fascismo è tanto abusato da perdere di senso, un po’ come quando da bambini si gioca a ripetere continuamente una parola fino a che davvero non si comprende più cosa significhi. Senza pretendere di sgombrare il campo dai rovi di decenni di fraintendimenti, possiamo precisare che il totalitarismo ora ha sembianze più gradevoli, non la postura caricaturale di Mussolini, non il delirio del climax oratorio di Hitler, non l’ingannevole baffone da nonno di Stalin, oggi risplende dai cellulari, è la falsa libertà dell’opinione dell’uno che vale uno, è l’ignoranza al potere, è l’arroganza multicolore del nichilismo dei social, è l’onnipotenza degli algoritmi, è l’abdicazione all’intelligenza artificiale, è il popolo massa degli odiatori, è la stupidità di tutti quelli che credono di poter sostituire una vita di studio con un tutorial, è la manipolazione di una informazione drogata, è l’impossibilità di darsi il tempo per pensare ricordando che il pensiero è libero solo se si consente a prospettive alternative. La semplificazione di chi pretende risposte che siano definitive verità, è figlia della paura della responsabilità, del bisogno di sapersi in adeguata compagnia pur celebrandosi come al di fuori della massa algoritmizzata. Carlo Levi scriveva al tempo del patto Molotov-Ribbentrop che, questo era ovviamente impensabile all’epoca, rappresentava il Giano bifronte del più bieco potere, quello senza una vera faccia, senza responsabilità, anonimo e ottuso, insomma, quello della rete, quello che asserve l’idea all’opportunità, subdolo, strisciante. Il patto sopra citato era l’antesignano, troppo frettolosamente dimenticato tra le righe dei manuali di storia, della faccia ambigua del potere nella sua natura multicolore, che buffi quelli che credono che l’imbellettamento cromatico tra rosso e nero sia sostanziale, che ridicoli i manichei ghibellini o guelfi che si instupidiscono in certezze pilotate da algoritmi, quanti “inutili” come li definirebbe Nietzsche, tanti da essere maggioranza e, ancora più ridicoli, capaci di pensarsi come “liberi ed estranei agli schemi”.
Torniamo di nuovo a Levi di Paura della libertà: “Per chi è nato servo, abdicare a se stesso è una beatificante necessità”; nulla è cambiato se non che oggi abdicare è consegnarsi ai social che significa ribaltare i rapporti tra soggetto e mezzo, quello che è un sottotesto della civiltà del benessere dai tempi dei Faraoni a oggi, quello che l’amico Immanuel Kant reputava imperativo categorico: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”; il mezzo dovrebbe essere la rete, internet, il social mentre il fine dovrebbe essere chi li utilizza e, al contrario, ne è divenuto schiavo. Ma è lecito chiedersi: se Kant più di due secoli or sono si è sentito in dovere di ribadire un concetto come quello appena citato, è lecito presumere che fosse monito e pungolo già allora, riprova del fatto che si studia la storia in maniera quantomeno inefficace e che il pericolo camaleontico muta il proprio colore per meglio ingannare, ma gli occhi restano gli stessi, sarà utile imparare a riconoscerli. Ecco che possiamo conseguentemente ritornare all’interrogativo di apertura: perché oggi si è disimparato a studiare la storia? Oggi non si studia la storia perché il farlo richiederebbe impegno e coraggio, valori oramai scomparsi. Oggi tutto deve essere “a portata di mano”, pre masticato e pre digerito, ne è inevitabile conseguenza che non si abbiano più i denti né i succhi gastrici per cui sarebbe fonte di mal di stomaco ogni assunzione storica, meglio il vomito dei social che non va masticato né digerito, basta supinamente ingoiare, ma se provassimo a spiegare che la storia non sono date e nomi del passato ma lo sguardo coraggioso e competente di chi li osserva oggi, ecco che studiare la storia tornerebbe a essere un atto d’amore e capire che “anche alla fine del mondo la strategia umana per sopportare la paura è l’amore”, ancora Carlo Levi.
Per un Pensiero Altro è la rubrica filosofica di IVG, a cura di Ferruccio Masci, in uscita ogni mercoledì. Perchè non provare a consentirsi un “altro” punto di vista? Senza nessuna pretesa di sistematicità, ma con la massima onestà intellettuale, il curatore, che da sempre ricerca la libertà di pensiero, ogni settimana propone al lettore, partendo da frasi di autori e filosofi, “tracce per itinerari alternativi”. Per quanto sia possibile a chiunque, in quanto figlio del proprio pensiero. Clicca qui per leggere tutti gli articoli.