Parole come pezzi di corpo. Intervista alla poeta Letizia Polini
- Postato il 22 novembre 2024
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La prima volta che ho letto un testo della poeta Letizia Polini (Fermo, 1988) mi è rimasta attaccata l’impressione di avere a che fare con un’autrice da tenere d’occhio. Nonostante sia soltanto alla seconda raccolta, la scrittura e la ricerca si mostrano al lettore già mature, già esatte e al tempo stesso barcollanti e instabili per il loro inseguire una certa sperimentazione.
Le poesie di Letizia Polini
Sono poesie, quelle di Polini, macabre ed evanescenti come un incubo, come un sentimento corporeo. Polini vive a Bologna, dove lavora come insegnante. Ha pubblicato Macula (Ensemble, 2022) e Subsidenza (Puntoacapo Editrice, 2024) opera vincitrice di Bologna in Lettere 2024. Suoi testi sono presenti in riviste online e cartacee. Collabora come redattrice con la rivista Versodove. Ha partecipato alla rassegna poetica Dialoghi 2.0 a cura di Paesaggi di Poesia e TEN Teatro Bologna e a RicercaBo 2023. In questa intervista abbiamo parlato del suo Subsidenza, di corpo, di casa, e anche un po’ di cinema.
la notte le sgretola i contorni. così fa cerchi
sull’epidermide [consola ripetere forme
consola ripetere]. le costole sciolgono
sotto l’orecchio
rotea il collo per fermarsi
nell’odore della tana
fa sempre
il caffè prima di svegliarla.
Intervista a Letizia Polini
Letizia, sei nata a Fermo, nelle Marche, e vivi a Bologna. Quando nei tuoi versi emerge il concetto di “casa” che sembra esserti caro, quale dei due luoghi è pensato come tale? Oppure ce n’è un terzo?
Sì, il concetto di casa ritorna spesso nella mia scrittura ed è relativo al passato e al presente.
In particolare, mi riferisco alla casa quando diventa un luogo poco sicuro e sempre sul punto di crollare, esattamente come quando parlo del corpo. I due concetti si sovrappongono a volte.
Leggere Subsidenza mi ha ricordato un film che ho visto da poco al cinema, tra l’altro con un titolo simile, il cui perno tematico era, come nel tuo caso, il corpo e il disfacimento di esso. Anche da lettrice e spettatrice apprezzi le opere distruttive rispetto a quelle costruttive?
Diciamo che vedo il disfacimento come un’apertura, come una possibilità per guardare le cose da dentro. Se ti riferisci a The Substance, ho trovato liberatorio vedere questo corpo che si schiude, poi si sdoppia, si deforma fino a distruggersi e che intanto grida “sono io”, quindi distruzione come catarsi non come fine. Quando un corpo si ferisce ciò che ne fuoriesce è come se lo amplificasse, come se lo rendesse ancora più visibile. Credo sia profondamente liberatorio poter osservare qualcosa che va in pezzi perché impone una resa. Ci sono opere e artist* che mi hanno segnata e che a distanza di anni ancora risuonano in me proprio per la potenza distruttiva (su più livelli) e al contempo liberatoria che portano, solo per fare degli esempi molto diversi tra loro, penso alle parole di Antonin Artaud, alla distruzione del linguaggio nelle glossolalie, al sangue e al mostruoso in Possession di Zulawski, o ai corpi e alla drammaturgia a brandelli e piena di innesti in Liebestod di Angèlica Liddell.
I tuoi versi si tagliano, si sfaldano, non solo nei contenuti ma anche visivamente, sulla pagina. Nel tuo primo libro, Macula, questo non succedeva. È voluto?
Credo dipenda dal differente processo di costruzione dei due libri. In Macula ho raccolto testi scritti con molto intervallo temporale, testi di 10 anni fa insieme ad altri più recenti, rileggendoli mi sono resa conto che si poteva rintracciare un filo conduttore, quello della visione e solo in un secondo momento mi sono resa conto che tutto tendeva ad uno sguardo volto inconsciamente, alla sfocatura, alla deformazione, “vedere meglio assomiglia ad una disfatta” (in apertura del libro).
In Macula il tema del disfacimento era ancora in stato germinale, non ha avuto la forza, e forse la necessità, di tracimare fino alla tessitura testuale sul foglio.
E nel nuovo libro?
Ho costruito Subsidenza, invece, a partire dal processo di formazione della roccia sedimentaria, che è stato funzionale a parlare della perdita e del crollo, ho sentito questo nucleo così forte che l’ho naturalmente riversato sulla pagina, in modo che lo sgretolamento, la sedimentazione, i vuoti si potessero percepire visivamente ancora prima di leggere.
Da dove ha origine questa tua ricerca poetica sul corpo? È capitato che condizionasse il rapporto con il tuo, di corpo, e con quelli altrui?
Macula si conclude con una ferita, che è simbolica e che non si vuole far guarire e da cui si attinge continuamente come esercizio di dolore che diventa atto liberatorio. In Subsidenza attraversare le fasi di formazione della roccia sedimentaria mi è servito per stare in ciò che si sgretola, in quel senso di sprofondamento (la subsidenza appunto) quando subiamo una perdita, quando qualcosa deve necessariamente cambiare forma, tutto ciò dalla prospettiva del corpo, dai suoi sintomi. Trovo interessante che quando un dolore emotivo è troppo forte si rovescia nel corpo, questo lo rende concreto, visibile, si concentra in un punto e questo lo fa sembrare curabile. Il corpo è estremamente fragile e sensibile e al contempo riesce a ricordare ciò che la mente deve necessariamente cancellare, tutto resta inscritto nel corpo.
Spiegaci meglio…
Anche ciò che è totalmente fuori dal nostro controllo ed esterno a noi, come il tempo o una lesione sulla pelle, agisce in noi attraverso il corpo e cambia il rapporto che abbiamo con esso e con ciò che lo attraversa. Tuttavia, il corpo può essere una prigione o qualcosa in cui non ci riconosciamo, di estremamente estraneo o può essere un campo di battaglia su cui agire un potere. Credo che la mia ricerca parta proprio da questo forte interesse.
Cosa vuoi dire per te, oggi, essere poeta? Ne esistono ancora?
Sì, credo esistano in ambito letterario e più in generale in ambito artistico. Credo che la poesia debba far succedere qualcosa, disturbare, portare fuori da un confine, non deve essere rassicurante, deve disseppellire ciò che è sepolto anche a nostra insaputa, innescare un cortocircuito, deve farci porre delle domande, produrre sensazioni che restano impresse in noi, anche contro la nostra volontà.
la casa disabitata generava
miriapodi di grandezza umana
l’assenza aveva partorito
ha controllato il respiro
dal primo segmento
le zampe percorrevano
le pareti
lei è sempre rintanata
in una crepa
Maria Oppo
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