Parliamo di pace, ma non sappiamo accogliere
- Postato il 25 giugno 2025
- Attualità
- Di Paese Italia Press
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di Francesco Mazzarella
Parliamo di pace. Ne parliamo nelle piazze, nei social, nei dibattiti, nelle liturgie, nei proclami politici. Gridiamo alla pace come a una bandiera che tutti possono alzare quando serve, quando è opportuno, quando fa comodo. Ma appena torniamo nei nostri luoghi – le famiglie, le comunità, le relazioni di ogni giorno – quella parola si svuota. Resta nei manifesti, nei discorsi, nelle preghiere… ma non si fa carne. Non si fa incontro. Non si fa abbraccio.
Viviamo un tempo in cui le parole si sono moltiplicate, ma i gesti veri si sono rarefatti. Parliamo tanto, agiamo poco. E parliamo soprattutto con parole alte, parole nobili: giustizia, fraternità, solidarietà, pace. Ma che ne è della pace se poi, nel concreto, non riusciamo ad accogliere chi ci vive accanto? Se non siamo capaci di ascoltare chi la pensa diversamente, di perdonare chi ci ha ferito, di vedere davvero chi ci è vicino, presente, ma invisibile?
La pace non è una dichiarazione. È una relazione. E se non parte da qui, dalla qualità dei nostri sguardi, delle nostre risposte, dei nostri silenzi condivisi, allora resta solo uno slogan. E gli slogan, da soli, non salvano il mondo.
La pace vera non si costruisce con le parole altisonanti, ma con la verità silenziosa di chi c’è. Di chi resta quando è scomodo. Di chi ascolta anche quando non ha nulla da dire. Di chi accoglie senza condizioni, senza pretese, senza aspettarsi che l’altro si adegui o cambi per essere “degno” di attenzione.
Eppure, continuiamo a illuderci che basti “prendere posizione”. Che sia sufficiente scrivere un post, partecipare a una manifestazione, condividere un hashtag, per essere parte della soluzione. Ma la pace non è un’opinione. È una pratica. E la pratica richiede coerenza. Richiede fatica. Richiede presenza. Richiede che ci sia qualcuno disposto a mettersi in gioco, ogni giorno, nella realtà concreta.
È facile parlare di accoglienza quando parliamo di popoli lontani, di minoranze oppresse, di vittime di guerre che avvengono altrove. Ma l’accoglienza inizia con chi è difficile da amare sotto il nostro stesso tetto. Con il collega che ci irrita. Con il vicino che non salutiamo. Con il familiare che non capiamo. Con il fratello di comunità che ci ha deluso. È lì, nella banalità del quotidiano, che si misura la nostra capacità di pace. È lì che si rivela la verità delle nostre parole.
Eppure, questo tipo di pace non fa notizia. Non si può fotografare. Non si può gridare. Non si può condividere in un post virale. Perché è fatta di micro-relazioni, di scelte invisibili, di pazienza, di ascolto, di domande poste nel momento giusto. È fatta di sguardi che non condannano, di mani che si tendono anche dopo una rottura. È fatta di presente. Di attimi vissuti con verità. Di relazione autentica.
Viviamo in un mondo in cui la parola “pace” è stata ingabbiata. Viene usata come brand, come posizione politica, come identità di gruppo. Ma la pace non ha bandiere. Non ha partiti. Non ha religioni. La pace vera nasce dove c’è un cuore che si spoglia dell’orgoglio e sceglie la tenerezza. Dove c’è un “io” che rinuncia ad avere ragione per restare in relazione. Dove c’è il coraggio di dire: “Io ci sono. Anche se fa male, anche se è difficile, io non me ne vado.”
Ed è questo che manca oggi: il coraggio della relazione. Siamo diventati esperti di etichette, di giudizi rapidi, di prese di posizione. Ma non sappiamo più stare. Non sappiamo più restare. Non sappiamo più attraversare il conflitto senza aggredire o scappare. Non abbiamo più pazienza per l’altro. E senza pazienza, non c’è accoglienza. Senza accoglienza, non c’è pace.
Le nostre comunità – civili, religiose, sociali – sono spesso piene di slogan sulla pace, ma vuote di pratiche di riconciliazione. Parliamo di dialogo, ma non sappiamo ascoltare davvero. Celebriamo l’inclusione, ma abbiamo ancora paura di chi è troppo diverso. Difendiamo i diritti, ma solo di chi ci assomiglia. Ci diciamo “operatori di pace”, ma siamo spesso portatori di tensioni malcelate, di silenzi aggressivi, di esclusioni travestite da discernimenti.
Ci mancano le mani sporche di relazioni vere. Quelle che sbagliano, che si sporcano, che toccano le fragilità. Ci manca l’arte della prossimità: quella che non impone, ma accompagna. Che non si fa per dovere, ma per amore. La pace non è fatta di perfezione, ma di umanità. E non c’è umanità senza il rischio dell’imperfezione, senza il rischio dell’incontro.
Non è raro trovare persone che si spendono per cause globali e dimenticano la gentilezza nel traffico. Che si commuovono per le guerre in Medio Oriente, ma non sanno chiedere scusa in famiglia. Che scrivono lettere alla pace e alzano la voce in casa. È umano, certo. Ma è anche il nodo della questione. La coerenza della pace si gioca nel reale, non nell’ideale.
Una parola accogliente detta a un estraneo, un caffè condiviso con chi è solo, un silenzio pieno davanti al dolore di qualcuno, sono gesti infinitamente più rivoluzionari di qualsiasi manifestazione gridata senza cuore. Perché lì c’è la carne della pace. Lì c’è la vita che si fa dono. Un dono fragile, silenzioso, ma autentico.
Abbiamo bisogno di comunità che non si limitino a parlare di pace, ma la pratichino. Che non facciano eventi sulla fraternità, ma costruiscano relazioni dove davvero nessuno si senta escluso. Abbiamo bisogno di spiritualità incarnate, che partano dal basso, che sappiano stare con i piedi nel fango della realtà e con il cuore aperto al cielo. Spiritualità che non si misurano dal numero di eventi, ma dalla qualità dell’accoglienza.
Abbiamo bisogno di cambiare ritmo. Di rallentare per vedere. Di fermarci per ascoltare. Di smettere di correre dietro ai like e iniziare a camminare accanto ai volti. Perché è solo nello sguardo che nasce la relazione. Ed è solo nella relazione che nasce la pace. Una pace che non ha bisogno di essere urlata, ma vissuta. Una pace che si riconosce dal bene che fa, non dall’eco che produce.
Un gesto vero, oggi, vale più di mille parole. Un abbraccio sincero, più di mille post. Un perdono silenzioso, più di mille frasi condivise. La relazione è il luogo della verità. È lì che la pace si fa spazio. Non nei palazzi, ma nelle cucine. Non nei discorsi, ma nei corridoi. Non nei documenti, ma nei respiri condivisi. Nei pianti ascoltati. Nei gesti semplici, ripetuti ogni giorno con fedeltà.
E forse, sì… gli slogan non salveranno il mondo. Ma la relazione vera, nei nostri attimi presenti, potrebbe farlo davvero. Se solo ricominciassimo da lì. Dal nostro metro quadro di umanità. Dal nostro piccolo quotidiano. Dalla prossimità che non ha bisogno di pubblicità. Dalla fatica concreta dell’amare chi ci è stato dato, non chi abbiamo scelto. Solo così, forse, la pace smetterà di essere una parola vuota… e tornerà ad abitare le nostre vite. A viverci dentro. A trasformarci da dentro.
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