Palestina, lo Stato che non c’è

  • Postato il 1 ottobre 2025
  • Di Panorama
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Il primo è stato Pedro Sánchez. Forse per accontentare i venti partiti della sinistra radicale che sostengono il suo governo, forse per far dimenticare i guai giudiziari che hanno coinvolto la moglie e il fratello da poco rinviati a giudizio per uno scandalo finanziario, il primo ministro spagnolo già all’inizio del 2024 ha impugnato la bandiera di Gaza, riconoscendo lo Stato palestinese.

Poi sono arrivati l’Irlanda, la Norvegia e la Slovenia, mentre di recente hanno annunciato il riconoscimento anche Regno Unito, Canada, Australia, Portogallo, Francia, Belgio, Lussemburgo, Malta, Liechtenstein e Nuova Zelanda. Così, in totale nel mondo sono saliti a 158 i Paesi schierati a favore della causa palestinese. In pratica, dei 193 Stati che fanno parte dell’Onu, solo 35 per ora hanno evitato di schierarsi e, tra questi, in Europa ci sono l’Italia, la Germania, l’Austria, la Grecia, la Svizzera, i Paesi Bassi, la Croazia e pochi altri.

Ma che cosa significa riconoscere la Palestina?

Agli effetti pratici niente, si tratta di una pura dichiarazione di intenti, che non ha prodotto né produce alcun risultato concreto. Del resto, da tempo circa due terzi dei membri delle Nazioni Unite hanno riconosciuto lo Stato palestinese, ma questo non è servito a farlo nascere.

Dunque, anche le recenti adesioni alla causa di Francia, Gran Bretagna e Canada non cambieranno la situazione, perché al di là delle dichiarazioni di principio resta da sciogliere una serie di nodi fondamentali.

Confini e capitale irrisolti

Affinché ci sia uno Stato serve che vengano definiti il suo territorio e la sua capitale. Ma nel caso palestinese né l’uno né l’altra sono chiari.

In teoria, i confini dovrebbero essere quelli antecedenti alla Guerra dei sei giorni e la capitale dovrebbe sorgere a Gerusalemme Est, ma i conflitti che si sono susseguiti in oltre mezzo secolo hanno portato Israele a occupare parte di quei territori e a spostare la sede della sua capitale.

Per Benjamin Netanyahu la rinuncia a ciò che il suo Paese ha conquistato metterebbe a rischio la sua stessa esistenza e dunque rifiuta il passo indietro. Peraltro i primi a non riconoscere i confini del 1967 sono gli stessi palestinesi. O, meglio, movimenti radicali come Hamas, per i quali l’unico stato possibile è quello che va «dal fiume al mare», vale a dire senza Israele.

Divisioni interne

Il nodo che dal 1948 a oggi nessuno è riuscito a sciogliere, in sostanza, è tutto qui: da un lato c’è una parte palestinese che non intende in alcun modo riconoscere Israele e, dall’altro, nel corso degli anni sono sorti partiti integralisti israeliani che rifiutano l’idea di uno Stato palestinese perché lo ritengono una minaccia per la sussistenza del proprio.

A complicare le cose c’è il fatto che la leadership palestinese è tutt’altro che unita. E a dividerla non c’è solo che Gaza e la Cisgiordania, pur facendo parte in teoria di uno stesso Stato, sono entità staccate, ma c’è una spaccatura profonda tra chi guida i palestinesi.

Da una parte ci sono i movimenti radicali, tipo Hamas, che da anni seminano terrore nel territorio, dall’altra l’Anp, ovvero ciò che resta della vecchia Olp di Yasser Arafat, autorità che da almeno vent’anni non si sottopone al voto degli elettori per paura di perdere.

Trattative impossibili

In questo scenario, riconoscere lo Stato palestinese non significa nulla, perché non c’è uno Stato che possa essere definito tale. E non solo per colpa di Israele, ma anche per le divisioni e i conflitti fra chi rappresenta la causa palestinese.

Oggi, trattative tipo quelle che si tennero negli anni Novanta a Oslo o nel Duemila a Camp David non sarebbero possibili per la semplice ragione che i mediatori non saprebbero chi far sedere.

Se all’epoca si potevano incontrare Yitzak Rabin e Yasser Arafat, oppure Ehud Barak e lo stesso capo dell’Olp, in questi giorni un Bill Clinton che volesse provare a raggiungere un’intesa con il reciproco riconoscimento non saprebbe su quale leadership palestinese puntare, perché nessuna, né Hamas né l’Anp, appare in grado di rappresentare la causa che si sono intestate.

Parole al vento

Ed è forse questa la principale ragione della tragedia palestinese. Mentre il popolo soffre sotto le bombe israeliane, chi lo guida o dice di guidarlo non pare avere una strategia che consenta di raggiungere un’intesa che porti alla fine della guerra. Con chi può trattare Netanyahu? A chi può dire a quali condizioni fermerà i carri armati?

Dunque, fino a quando non si chiarirà chi rappresenta i palestinesi e in quale direzione vuole andare, i riconoscimenti della Palestina, così come le dichiarazioni che puntano all’accettazione di due popoli e due Stati per un solo territorio, sono parole al vento.

Enunciazioni che servono per lavarsi la coscienza, ma che non offrono alcuna soluzione al problema. Se domani anche tutti gli Stati che fanno parte dell’Onu riconoscessero la Palestina, resterebbe il tema di quale Palestina parlano. Quella divisa in due o quella senza Israele? Quella guidata dal fondamentalismo islamico o quella moderata? Nessuno sa dirlo.

Autore
Panorama

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