Padovani: «Pm e giudici, non solo carriere separate ma diversa formazione»
- Postato il 6 marzo 2025
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Padovani: «Pm e giudici, non solo carriere separate ma diversa formazione»
Intervista a Tullio Padovani, già professore di diritto penale alla Superiore di Pisa, su carriere separate e riforma della giustizia ritenuta “fondamentale per il giusto processo”
Non si arresta il dibattito, sempre più aspro, sulla separazione delle carriere. Per ascoltare una voce qualificata, e approfondire l’argomento, abbiamo intervistato Tullio Padovani, già Professore ordinario di Diritto penale presso la Scuola Superiore “Sant’Anna” di Pisa, Accademico dei Lincei e avvocato penalista. Secondo il noto studioso non ci sono dubbi, si tratta di una riforma fondamentale per attuare fino in fondo il giusto processo e adeguare le figure del p.m. e del giudice alle sfide della contemporaneità.
La proposta di separazione delle carriere dei magistrati ha sempre conosciuto una forte opposizione da parte dell’ANM. Eppure, si fonda su dei principi chiari, semplici, si direbbe indiscutibili: l’attuazione piena del giusto processo cristallizzato dall’art. 111 della Costituzione e la piena applicazione del modello accusatorio sposato nella stagione della riforma del codice di procedura penale…
Esattamente. Un sistema che si ispiri ai principi del processo accusatorio deve per forza avere parti distinte e separate, che non possono confondersi in nessun modo col giudice. Si tratta di un dato talmente ovvio, talmente banale che si fa fatica a discutere. Non certo perché ci si voglia sottrarre dal confronto, ma perché siamo all’a-b-c. Ho sostenuto, credo a ragione, che in questo caso “l’onere della prova” non appartiene a chi promuove la separazione delle carriere ma a chi difende il regime attuale. È chi è contrario che deve dimostrare che il sistema della carriera unica è compatibile con la Costituzione e con il modello accusatorio. Per quanto chi è contrario si sforzi di addurre argomenti, credo che siano perlopiù argomenti inconsistenti.
Affrontiamo subito uno degli argomenti maggiormente utilizzati dal fronte del “no” alla separazione: il rischio della sottoposizione all’esecutivo del p.m. Cosa ne pensa? Si corre davvero questo pericolo?
Non solo la sottoposizione all’esecutivo non è prevista nel testo della riforma ma è addirittura esplicitamente esclusa dall’art. 104 della Costituzione. Il principio che sancisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura non viene assolutamente toccato. Il problema, semmai, è quello di organizzare l’ufficio del pubblico ministero in maniera efficiente. Ma la discussione sul pericolo della sottomissione all’esecutivo è fondata sul nulla. Non c’è, non è previsto.
Parlando di organizzare l’ufficio del pubblico ministero in modo efficiente mi ha fatto tornare in mente la riflessione di Falcone: la necessità di trasformare profondamente l’ordinamento giudiziario attraverso la valorizzazione di un diverso habitus mentale di p.m. e giudice, anche per garantire loro l’adeguata specializzazione richiesta dalla diversa funzione. La separazione come incide su questo?
Tra sostenere l’accusa e giudicare corre una differenza abissale, che corrisponde a quella che esiste tra difendere e giudicare. In altri termini, in un processo accusatorio è fisiologico che le due parti contrapposte presentino il proprio caso, il caso dell’accusa e il caso della difesa, evidenziando tutti gli elementi che da un lato corroborano la responsabilità e che dall’altro la escludono. In mezzo il giudice, che è chiamato a una decisione nella quale compirà una serie di valutazioni epistemologiche, giuridiche e logiche per arrivare a un risultato. Ma deve essere terzo e indipendente rispetto alle due parti. E questo non è affatto garantito dalla mera separazione delle funzioni. Qui arriviamo a quanto sostenuto da Falcone: la matrice unitaria dei due soggetti, che provengono dallo stesso concorso e che hanno avuto la stessa formazione preliminare, attraverso quella scuola pratica costituita dopo la vittoria del concorso nei vari uffici di una sede di Corte d’Appello, testimonia di una formazione profondamente unitaria. Tutto ciò si riverbera inevitabilmente sui rapporti successivi, sul mutuo reciproco riconoscimento di dignità professionale e sulla credibilità di soggetti che si riconoscono come provenienti da una medesima scuola, una medesima educazione. Del resto, non è un caso che giudici e p.m. rivendichino a vantaggio della unità delle carriere la cosiddetta “cultura della giurisdizione”.
Sì, Professore, un’altra questione ricorrente. Si sente ripetere spesso: la separazione delle carriere distruggerebbe la cosiddetta “cultura della giurisdizione”…
Su questo, mi sia consentita una riflessione. Bisogna dare un senso alle parole. Cos’è la cultura della giurisdizione? Se la si intende in senso stretto, cioè come ius dicere, quale attività deputata alla risoluzione di un conflitto secondo le regole del diritto, allora la giurisdizione è ufficio esclusivo del giudice. Se, invece, intendiamo la giurisdizione come partecipazione comune ad un sistema di valori in cui si riconosce alla legalità il criterio fondamentale di risoluzione del conflitto, e si consente solo l’uso di strumenti che alla legalità corrispondano, allora la cultura della giurisdizione è, e non può non essere, comune a tutti e tre i soggetti che appartengono al giudizio. Anche il difensore, dunque, deve essere riconosciuto in questo schema. L’impressione, invece, è che tendenzialmente i p.m., quando sostengono che con la separazione essi verrebbero esclusi dalla cultura della giurisdizione, ne rivelino una concezione proprietaria, come se fosse un valore condiviso solo con i giudicanti. E i difensori? Sono reietti, briganti? Sono incolti che turbano le attività di coloro che invece sono colti? D’altra parte, il difensore proviene da un’altra scuola, un altro percorso. Ecco perché viene escluso. Ingiustamente escluso, come nelle facoltà di Giurisprudenza venivano esclusi una volta gli studenti dell’istituto tecnico, visti come stranieri rispetto a quelli provenienti dai licei. Dunque, partiamo intanto da una ridefinizione di cosa intendiamo per cultura della giurisdizione.
Pensa che questo effetto sia frutto di “rigurgiti inquisitori”?
Assolutamente. Nel modello inquisitorio l’avvocato è un soggetto clandestino, la cui è attività si può al massimo tollerare e la cui attività si deve autorizzare. Nel sistema inquisitorio il difensore non deve disturbare la ricerca della verità che compete ai soggetti a ciò deputati, affratellati da un vincolo pubblico che li pone al di sopra del difensore. Così non va.
A proposito di ricerca della verità e del ruolo del p.m. ANM ha in più occasioni sottolineato che dividendo le carriere si darebbe vita a un pubblico ministero non più incline alla ricerca delle prove a favore dell’indagato, trasformato in un accusatore senza vincoli e senza scrupoli. Le sembra un timore fondato?
Sostenere che il p.m. uscirebbe al di fuori delle regole fissate per il suo comportamento perché non condividerebbe più la stessa matrice concorsuale del giudice e non avrebbe più la stessa carriera è del tutto infondato. Come se per stare entro i limiti della legalità il p.m. dovesse necessariamente avere la stessa fonte di provenienza del giudice. Un ragionamento sbagliato. E allora l’avvocato, che sta certamente fuori da questo meccanismo di carriera, si muove fuori dalla legalità? Che molti lo pensino non mi stupisce, ma, allora, occorre che lo dicano apertamente, che i difensori sono dei banditi, dei corsari e si muovono al di là del perimetro della legalità. Non si può scherzare su questo: la riforma non toglie al p.m. il vincolo della legalità. E comunque, mi sia concesso, nella prassi nessun p.m. fa indagini a favore dell’indagato. Nessuno, perlomeno, che io conosca. Poi ce ne saranno mille che non conosco. In tal senso, con la riforma non cambierebbe nulla: né sul codice, né nella realtà.
Il Fatto Quotidiano sostiene che il Ministro Nordio abbia pronta nel cassetto una proposta dirompente: sganciare la polizia giudiziaria dal p.m., sottrarre a quest’ultimo il controllo delle indagini. La notizia, naturalmente, non ha avuto riscontri dal governo e non è in riforma. Però le chiedo, Professore, cosa ne pensa?
Il nodo della polizia giudiziaria è effettivamente molto delicato e cruciale. Mettiamo però subito “i puntini sulle i”: noi non veniamo dal paradiso, veniamo da una situazione molto problematica in cui la teoria non corrisponde alla prassi. Alla dipendenza della polizia giudiziaria dal pubblico ministero, sancita dalla legge, non corrisponde nella realtà una situazione di questo tipo ma piuttosto una condizione opposta. Su questo si direbbe “procura che vai situazione che trovi”: ci sono pubblici ministeri sufficientemente esperti, abili, attrezzati culturalmente e scientificamente, e altri, penso soprattutto a piccole procure e ai p.m. più giovani, che soggiacciono alle iniziative della polizia giudiziaria e interamente ne dipendono. Le indagini in realtà le fa la p.g., spesso includendo esplicitamente anche i capi di imputazione. Non è raro che vi siano pubblici ministeri preparati giuridicamente ma non in grado di guidare l’orientamento delle indagini, che richiede un grado di specializzazione tecnica notevole dal punto di vista operativo.
Da cosa dipende a suo avviso questo meccanismo?
Dipende proprio dall’unità delle carriere. Questo perché il p.m., oggi, non riceve una formazione adeguata, aggiornata e specializzata, visto che viene preparato per svolgere un mestiere molto diverso da quello che dovrà poi di fatto praticare. Soprattutto se viene a contatto con reati che richiedono tecniche di indagine sofisticate. Ogni settore, d’altronde, ha le sue peculiarità. Il problema è che dobbiamo mettere il p.m. nelle condizioni di poter dirigere davvero le indagini, rafforzando la sua preparazione specifica, orientando la direzione in modo criticamente avveduto. Questi strumenti il p.m. oggi non li ha e bisogna darglieli. Il futuro della riforma, la sua logica conseguenza, è questo. Una volta separate le carriere il p.m. deve essere un soggetto dotato di una solida preparazione giuridica e rispettoso delle garanzie individuali ma anche capace di padroneggiare certi strumenti tecnici. Va istruito in modo adeguato. E l’unità delle carriere non lo permette.
Un percorso lungo, che richiede tempo, anche per essere metabolizzato dal sistema…
Certo. E questo apre al dopo riforma. Non basta premere un pulsante e, per così dire, accendere la luce. Accesa la luce bisognerà lavorare intensamente per dare effettività alla riforma. La riforma è solo l’inizio: avremo anni di disagi, dato che la coesistenza di soggetti cresciuti in un contesto come quello odierno renderà problematico l’ingresso delle nuove leve, nate con la separazione delle carriere. Ci sarà un periodo di transizione che consentirà ai denigratori della riforma di dire che è stata una riforma inutile, ma sarà proprio quello il momento in cui invece rilanciare e sostenere di andare avanti su quel tracciato. La traiettoria è evidente: bisogna pensare a una nuova dimensione del pubblico ministero nella formazione. Il problema di oggi, dunque, rispetto al rapporto con la p.g. deriva dall’unità delle carriere, e proprio la separazione ci consentirà di arrivare a un esito diverso, come appena detto.
E il giudice, Professore? Le ricadute positive della riforma dovrebbero riguardare profondamente anche il giudicante…
Il giudice deve essere altro tanto rispetto all’accusa che alla difesa. L’effetto di una diversa formazione deve produrre proprio questo: il giudicante deve sentirsi distinto e distante da entrambi le parti. Il giudice deve essere soggetto solo alla legge – solo alla legge -, deve trascendere “il principe” e il vincolo istituzionale di potere ma anche altri meccanismi. Il giudice, dunque, dovrà abituarsi a trattare il difensore allo stesso modo in cui tratta il p.m., non come accade oggi. Ogni giorno si porta a casa un episodio, una smagliatura, un elemento che ci fa sospettare di una situazione che deriva dalla promiscuità originaria tra accusa e giudice e che incide negativamente non solo sul p.m. ma anche sul giudicante. Lo condiziona a identificare l’accusa come un’attività frutto di un collega, di un suo simile, che di conseguenza deve godere di un certo privilegio di credibilità maggiore, che giunge sino al paradosso.
L’accusatorio sulle labbra, l’inquisitorio nel cuore, verrebbe ancora da dire, se questa è la temperie culturale in cui sono immersi i giudicanti…
Ma è così, non si stupisca. La commistione incongrua tra p.m. e giudice è frutto di un problema culturale: non abbiamo recepito lo spirito del modello accusatorio. D’altronde, come constatava già molti anni fa un grande giurista come Cherif Bassiouni, parlando di cross-examination, altro aspetto su cui la separazione avrebbe un effetto positivo, il nostro Paese ha giustamente optato per l’accusatorio ma è come se lo avesse fatto solo attraverso le informazioni ricevute dagli Stati Uniti mediante cartolina postale. Voleva dire, il grande giurista, e aveva ragione, che l’Italia non era culturalmente pronta a quel salto, non ci eravamo ancora arrivati allora. Ecco che ci troviamo ad annaspare in un sistema accusatorio mutilato, che speriamo di rilanciare proprio attraverso una sagace attuazione di questa riforma, portando a un riassetto fondamentale.
Il Quotidiano del Sud.
Padovani: «Pm e giudici, non solo carriere separate ma diversa formazione»