Ovazione per il nuovo film di Gus Van Sant, Dead Man’s wire è una commedia nera tra rivolta popolare (Joker) e allegoria del potere (Bugonia)

  • Postato il 3 settembre 2025
  • Cinema
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Partiamo dal fondo. Dall’ovazione smodata del pubblico veneziano in sala Darsena quando nei titoli di coda di Dead Man’s wire, il nuovo film di Gus Van Sant, Fuori Concorso a Venezia 2025, appare la scritta dove si spiega che la Meridian Mortgage, una società di riscossione mutui che ha probabilmente fregato il protagonista del film, Tony Kiritsis, dopo pochi anni dai fatti raccontati è fallita miseramente.

Dead man’s wire si infila proditoriamente nel filone “popolo in rivolta” che segue Joker e il veneziano Bugonia. Qui la versione “fatto vero” è quella del povero cittadino qualunque vessato dal grande e insensibile capitale finanziario. Siamo in un freddo febbraio del 1977 a Indianapolis quando Kiritsis (Bill Skarsgard) entra negli uffici della Meridian Mortgage Company prende in ostaggio il figlio del proprietario Dick Hall (Cary Elwes) e gli fissa con un fil di ferro la canna mozza del Winchester alla nuca legando un’estremità del filo al grilletto e l’altra al collo di Hall in modo da impedirgli la fuga o un qualunque assalto della polizia. Kiritsis porterà con sé Hall uscendo dall’edificio, facendo parecchi metri in strada e poi salendo sull’auto fino a casa propria in un residence dove alle finestre ha legato un congegno di esplosivi pronto a saltare alla prima pallottola dei cecchini.

Il rapimento, seguitissimo in una fortuita diretta tv, finirà 68 ore dopo quando le richieste in denaro, di impunità e di scuse dalla Meridian poste da Kiritsis verranno accettate e lui in diretta nazionale (in quel momento, si vede anche nel film di Van Sant, John Wayne venne interrotto mentre teneva un discorso di accettazione di un premio) mostrerà la sua gioia, ma verrà subito arrestato. In pratica Kiritsis aveva ipotecato tutti i suoi miseri averi, fiutando l’affare di un acquisto a poco prezzo di un terreno che pensava potesse essere adibito a centro commerciale. Impossibilitato a rimborsare il prestito, quindi il mutuo su quel terreno, si era convinto non a torto che i riscossori, gli Hall, sapendo quanto fosse prezioso quello spazio, avevano scoraggiato i potenziali investitori nel centro commerciale emarginando Kiritsis dall’affare.

Il ritorno di Van Sant alla regia dopo sette anni (Don’t worry, He wont get far on foot) è una commedia nera, sfrontata e sfiziosa che occhieggia a Quel pomeriggio di un giorno da cani (1975) e a cui aggiunge un delizioso groove magnetico, più o meno diegetico, grazie alla triangolazione con la presenza di una radio locale e del suo dj di punta (Colman Domingo) che Kiritsis coinvolge nel rapimento chiedendogli di fare da mediatore. Anche se in realtà l’amplificazione in diretta di tv e radio delle gesta di Kiritsis non fa altro che rendere il protagonista ultra popolare tra gli ascoltatori. Del resto in queste ore molte testate statunitensi nel recensire il film contestano il fatto che Van Sant abbia come costruito una patina bonaria attorno al protagonista, quando in realtà non lo sarebbe stato affatto, anzi sarebbe stato un vero e proprio squilibrato. Il punto di fondo, però, proprio come in Bugonia e Joker, e come in tanto cinema paranoico e antisistema anni settanta, il fascino di Dead Man’s Wire sta proprio in questa ricercata eccentrica, bizzarra vicinanza con il rapitore.

Van Sant gli concede, come per tutta la vicenda, i toni dell’allegoria del potere, le coordinate di un gioco gatto col topo dove è chiaro fin da subito che è proprio Kiritsis la vittima sia degli Hall che del piano delle autorità per fermarlo. La rabbia anti-istituzionale che il film trasmette, infine, dal primo all’ultimo fotogramma è autentica e avvincente. Mentre il nervoso e incontenibile Skarsgard si mangia magistralmente mezzo film, Domingo e Pacino gli cuciono l’orlo del suo Kiritsis con due preziose performance. Pacino, in particolare, con nemmeno tre pose e al telefono, è un avvocato del diavolo a tutti gli effetti, il classico riccastro furbo cinico e irrispettoso perfino verso suo figlio ostaggio. L’ovazione per il suo fallimento, e per la mezza vittoria del protagonista, è meritata. Come sono meritati gli applausi per Van Sant autore di uno dei più convincenti titoli del festival.

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Il Fatto Quotidiano

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