Ospedali-aziende: quando i medici diventano manager e i pazienti numeri da performance

  • Postato il 1 giugno 2025
  • Di Panorama
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a nostra salute ridotta a un calcolo ragionieristico di entrate e uscite. Costi, spese, rimborsi, ricavi e, in mezzo, noi. Niente altro che numeri, pedine del sistema utili solo per far raggiungere ai reparti ospedalieri obiettivi di budget e performance che garantiscono più soldi in busta paga…
Scenario estremo? Sì, ma non tanto lontano dalla realtà. Nell’era degli ospedali-aziende, il Sistema sanitario nazionale ha ormai molto poco di nazionale ed è diventato un meccanismo dove – quantomeno riguardo ai traguardi da perseguire – le Regioni e addirittura le singole aziende sanitarie possono muoversi più o meno liberamente.

Un’autonomia economica già di fatto differenziata (male) i cui risultati spesso si rivelano drammatici. «Nel mio ospedale la direzione generale ha ritenuto opportuno imporre alla mia unità operativa sia l’obiettivo di eseguire più interventi per smaltire le liste d’attesa, sia di risparmiare soldi utilizzando meno presidi, strumenti chirurgici, dispositivi impiantabili, siringhe, tubi, ago-cannule» spiega a Panorama N.T., primario di un reparto di chirurgia di un grande ospedale del Sud, dove spesso gli interventi possono costare alle aziende il doppio rispetto alle regioni del Nord. «Ma se devo operare più persone, come faccio a ridurre i costi? Forse mi si sta velatamente suggerendo di risparmiare sulla qualità delle forniture, a discapito dei pazienti ma a vantaggio delle performance ospedaliere…».

Interrogativi che risuonano nelle corsie dei reparti specialistici così come in quelle – sempre affollate e caratterizzate spesso da violenza e aggressioni – dei Pronto soccorso, dove si gioca anche un altro campionato: quello del tempo. Le linee guida dicono che l’85 per cento dei pazienti deve essere dimesso entro otto ore, mentre i malati da ricoverare non possono sostare in Obi (Osservazione breve intensiva) per più di 44 ore. Obiettivi di fatto irraggiungibili. «Dal punto di vista delle aziende, sono pensati per spingere il direttore a capire cosa non funziona in reparto e a lavorare sui processi, in modo da togliere le zavorre che impediscono di avvicinarsi al risultato voluto» afferma Paolo Groff, primario del Pronto soccorso dell’ospedale di Perugia. «Se l’intento dal punto di vista manageriale può essere condivisibile, per noi primari diventa un incubo: una specie di “frusta” nelle nostre mani, che usiamo sui colleghi perché magari non hanno tempi di visita brillanti, o tendono a trattenere i pazienti per fare più esami, o a ricoverare più del dovuto. Il primario finisce per diventare una specie di cane da guardia. Senza considerare il fatto che il Ps è vittima del non funzionamento della medicina del territorio e dei reparti di degenza che non liberano i posti letto». Sorvolando sul rischio che i medici siano spinti a essere sbrigativi e magari a sottovalutare sintomi e ipotesi.

Se è vero che gli obiettivi di performance nascono con le migliori intenzioni, ossia promuovere le «buone pratiche» e favorire i processi assistenziali correlati ai migliori esiti per i pazienti, tuttavia i criteri economicistici mal si adattano al contesto sanitario; e lasciando le decisioni sugli obiettivi in mano alle aziende – non tutte dotate di manager competenti – si finisce per ottenere il contrario: inseguire le performance andando a ridurre l’offerta sanitaria e abbassando il livello delle cure. Perché quando queste aziende impongono gli obiettivi ai reparti «sbagliati», in base a calcoli che a volte appaiono schizofrenici, raramente c’è qualcuno che provvede a correggere il tiro. 

«Il problema fondamentale è che in gran parte delle strutture manca la visione globale dei processi» sostiene Guido Quici, presidente di Cimo, il Coordinamento italiano medici ospedalieri. «Se, per esempio, la direzione generale obbliga un reparto di medicina interna a dimettere i pazienti non oltre il quinto giorno di ricovero, ma poi il malato deve aspettarne sette per fare una risonanza o un’analisi di laboratorio particolare, come si procede? È ovvio che il malato vada tenuto in reparto, con l’effetto a cascata di impedire un nuovo ricovero, con un altro paziente che rimarrà in Pronto soccorso oltre il tempo “consentito”. Gli obiettivi vanno distribuiti tra i reparti in maniera sensata, e tutti i primari devono concorrere al raggiungimento di performance che siano a garanzia dei malati e dei corretti percorsi di cura e assistenza».

Invece, diventano pura burocrazia che serve solo a non far perdere ai medici un po’ di soldi in più: già, perché se gli obiettivi non vengono raggiunti, tutti i dottori del reparto (ma anche infermieri, Oss e direttori generali) a fine anno si trovano meno soldi in busta paga. E già questo, in un sistema sanitario costretto a ricorrere a medici gettonisti o stranieri perché gli italiani preferiscono andare all’estero o scegliere specializzazioni «facili» – come oculistica o medicina estetica – svuotando le rianimazioni, i Ps o i reparti ad alta complessità, è un problema tutt’altro che secondario.
«È un meccanismo umiliante» continua N.T., che preferisce restare anonimo. «Se non si raggiungono gli obiettivi noi medici perdiamo circa mille euro in un anno. Per un primario o uno strutturato possono essere pochi, ma per i giovani sanitari, per gli specializzandi o gli infermieri possono costituire un ammanco importante. Diventa una “punizione” per colpe non nostre, ed è ovvio che a nessun primario piace dover agire in tal modo: noi siamo medici, il nostro lavoro è curare al meglio le persone, non  raggiungere obiettivi aziendali irrealizzabili».

Le aziende sanitarie, a loro volta, devono rendere conto alle Regioni, che fissano i traguardi  generali: alle singole aziende viene chiesto di chiudere i bilanci in attivo e ottenere,  fra le altre cose, l’abbattimento delle liste d’attesa – e i direttori generali (che se gli obiettivi vengono disattesi, di soldi ne perdono parecchi) convocano i primari e chiedono di intervenire sulle loro attività.  «La macchina ospedaliera è talmente complessa che non ci si può permettere strutture sanitarie dove la mano destra, di fatto, non sa cosa faccia la sinistra» conclude Quici. «Invece spesso è la regola. Le tecnologie, per fortuna, sono migliorate, ma anche questo fa lievitare i costi. I robot chirurgici, per esempio, sono carissimi: se lo installo, per ammortizzare la spesa dell’apparecchio devo far lavorare la sala operatoria a ciclo continuo, dunque aumentare ricoveri e interventi. A questo punto imporrò l’obiettivo al primario di chirurgia».

Si spera non a qualunque prezzo. Perché, alla fine, si arriva sempre lì: al giuramento di Ippocrate, che impone ai medici di agire in scienza e coscienza e che mal si coniuga con le performance, il budget, le otto ore, le liste d’attesa, il risparmio sui farmaci o sulle siringhe. E al patto di fiducia con i pazienti che ogni giorno si rivolgono ai camici bianchi per essere curati: patto sempre più a rischio, alle prese con sfide utopistiche.

Autore
Panorama

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