One Big Beautiful Bill Act, non è una legge: è una pubblicità. E funziona. L’analisi di Carone

  • Postato il 3 luglio 2025
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  • Di Formiche
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La “One Big Beautiful Bill” di Donald Trump è la legge di bilancio più ambiziosa (e divisiva) del suo secondo mandato. Ma è (anche) il modo in cui la presenta a dire molto della sua politica.

“It’s BIG. It’s BEAUTIFUL. And it puts 💵 back in your pocket”, recita il testo del video con cui il profilo ufficiale della Casa Bianca annuncia il buon esito del voto. Il tutto accompagnato da un reel in stile pubblicità anni ’80, un po’ intermezzo da soap opera e un po’ spot cringe per capelli troppo “flat” e poco voluminosi. Il gioco di parole è semplice: flat non è solo la piega, è anche lo stipendio. “Flat paycheck? Flat broke? BUMP IT UP with Trump’s One Big Beautiful Bill.” Fallo salire, andare su, crescere.

Una legge che viene raccontata come grande e bella, e che cerca di diventare virale anche per come viene raccontata. “Big” e “beautiful” sono due parole che tornano spesso nel lessico trumpiano, ma qui si condensano in un titolo unico.

Negli Stati Uniti, il nome di una legge è un dispositivo narrativo: serve a venderla prima ancora che venga discussa. E se possibile, a renderla inattaccabile. Chi potrebbe opporsi a qualcosa che è “big” e “beautiful”? Chi vorrebbe tasse su straordinari e mance, quando l’alternativa è mettere volume al portafoglio?

Nel frattempo, i dettagli della legge si perdono nelle retrovie: tagli a Medicaid, credito d’imposta sull’energia ridotto, deficit stimato in oltre 2 trilioni di dollari. Ma in primo piano c’è prevalentemente il branding di un prodotto che promette meraviglie tramite un nome che sembra un trailer.

Da tempo, i nomi delle leggi americane non riflettono il contenuto, ma lo incorniciano. “Clear Skies Act” per un testo che secondo molti indeboliva il Clean Air Act. “Healthy Forests Initiative” per una norma che di base apriva le foreste al disboscamento commerciale. Non si cerca tanto coerenza, quanto l’impatto, la narrazione, la cornice interpretativa. E “One Big Beautiful Bill” funziona come un trailer in tre parole.

In questo, con il video 80s-style, Trump gioca su un doppio piano: da un lato la tradizione politica del marketing legislativo, dall’altro la grammatica digitale della cultura meme. Una grammatica che privilegia la ripetizione, l’ironia, la riconoscibilità. E soprattutto: la replicabilità.

Il reel condiviso dalla Casa Bianca è un esempio perfetto di questo processo. Una finzione pubblicitaria dal tono nostalgico, costruita per essere condivisa, remixata, memorizzata. Non spiega la legge: la vende. Come fosse un prodotto da supermercato. O da palestra.

Ed è un prodotto che potrebbe funzionare molto bene.

Il Reuters Institute Digital News Report 2025 certifica una tendenza chiara: per la prima volta i social e i contenuti video sono stati indicati come principale fonte di informazione politica, superando tv e siti tradizionali, in particolare tra gli under 35. Più del 50% dei giovani riceve notizie da canali digitali, con YouTube, TikTok e X (ex-Twitter) in testa – quest’ultima in netta crescita tra gli elettori conservatori.

Ed è proprio qui che il dato si fa interessante, almeno dal punto di vista strategico. Perché se è vero che la fascia 18–34 anni vota meno delle altre, è anche quella più esposta – e più permeabile – alla logica del contenuto che scorre: breve, semplificato, riconoscibile. Parlare il loro linguaggio, fatto di reel, emoji e battute remixate, significa non solo intercettare l’attenzione, ma costruire frame che sedimentano. Prima ancora che decidano se andare alle urne, decidono se una legge è “bella”. E se vale la pena condividerla. Al caos progressista, al wokismo, alla debolezza istituzionale, si risponde con tre parole maiuscole: BIG. BEAUTIFUL. BILL.

Non è importante cosa c’è nella legge.
È importante che sia beautiful.
E che funzioni bene.
Soprattutto se si scrolla con il pollice tra un reel e l’altro.

Autore
Formiche

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